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Boy Azooga: un vintage poliedrico per cuori infranti

By settembre 14, 2019 No Comments

Per comprendere in modo semplice lo spirito di una band come i Boy Azooga, originaria di Cardiff, che riesce a scomporre il suono in richiami analogici e dissonanze elettroniche roboanti, è sufficiente citare un passaggio di un’intervista rilasciata da Davey Newington, leader e fondatore di questo progetto, in cui dichiara che, fra le ispirazioni di questo debutto, ruolo fondamentale è attribuito ai Beach boys, di cui ricorda gli ascolti, durante i viaggi estivi, in macchina con i suoi genitori. Questo semplice ricordo è sufficiente a descrivere le influenze e le ispirazioni necessarie a realizzare l’esordio discografico, perché questa band non sembra aver immaginato un’idea di musica con una prospettiva limitata. Infatti, la tracklist di 1, 2, Kung fu! spiazza proprio perché si pone come lavoro trasversale e dinamico che non si abbandona alla staticità vintage di molte realtà musicali meramente emulative, ma si nutre di un rinnovamento quasi necessario per non cadere nelle trappole del citazionismo melodico. C’è una distanza molto breve fra l’album e la sensazione di familiarità che ne deriva. Probabilmente, ogni volta che un disco riesce a trasmettere un impatto sonoro quasi domestico, il segnale positivo è che gli artefici dell’opera hanno molto di cui parlare, proprio perché l’intento è di avvicinarsi a chi ascolta, lasciando una traccia non soltanto musicale, ma addirittura visiva.

Questo debutto ha una sola via diretta molto convincente, forse proprio per le intuizioni che rimbombano e non si fermano all’immediatezza del suono, arricchendosi di riverberi elettronici, quasi ipnotici e perfettamente incasellati nel disegno di ogni brano. Sin dai primi istanti di Breakfast epiphany, viene in mente uno scenario alieno, dalle sfumature esotiche che rimandano a uno stato di primordiale bellezza naturale intrisa di un’autentica malinconia. In un altalenarsi di tempi e controtempi equilibrati, questo suono stellare regala un frammento di puro dream pop, che però non è destinato a rimanere isolato in un angolo. È solo l’inizio, perché fra le influenze della band si nota anche Ty Segall senza che ciò rappresenti un azzardo o un caso: basti pensare a Loner Boogie, dai risvolti martellanti, metallici e dai ritmi quasi tribali. Questa mescolanza che permea lo stile dei Boy Azooga si percepisce soprattutto nella successiva Face behind her cigarette, che propone un motivo reiterato ma intriso di una vivace tenebrosità dal carattere suburbano. Tuttavia, la sorpresa arriva con Walking Thompson’s Park, una ballata notturna divisa in due parti: un prologo malinconico ed empatico che disegna uno scenario di solitudine e un’evoluzione ritmica dai risvolti squisitamente baroque pop. Saranno le influenze o la necessità di far affiorare i ricordi, ma c’è un elemento nostalgico che invade la poetica musicale di questa band, che si concretizza anche in brevi riesumazioni, come in Breakfast Epiphany II, che rielabora l’intro. Allo stesso modo, Taxi to your head alterna fasi elettro a sperimentazioni brevi e immediate in cui anche la voce subisce una mutazione o un effetto sonoro che ne cambia la sostanza. Sarebbe già abbastanza, ma Losers in the tomb continua questo viaggio personale, portando ad una seconda dimensione la struttura del disco attraverso un susseguirsi di luci colorate che invade la mente e il cuore, una combinazione di note a tratti metalliche, come messaggi dal futuro che, tuttavia, rimangono ancorate ad un’epoca musicale ormai passata. Diversamente, Hangover square sembra riportare a galla scenari quasi da britpop, con quel tono sentimentale disincantato un pò in salsa Gorillaz che lascia ben più di un’emozione. Ma è Waitin’ a svelare quella percezione onirica che identifica la band di Cardiff, con quei toni psichedelici, in stile King Wizard and the lizard wizard, tenuti a bada da una base pop mai snervante, ma anzi proiettata a proiettare prospettive differenti fra loro in un contesto articolato e difforme da soluzioni manieristiche. Un bel finale, poi, Sitting on the first rock from the sun, con quei brevi passaggi vocali e una melodia elementare che, però, a metà cambiano ancora e rimangono prevaricati da chitarre distorte su tempi sempre moderati. Alla fine dell’album, la sensazione è conflittuale, perché si rimane soddisfatti ma, al tempo stesso, sospettosi, perché una band che trova una convincente e ponderata convergenza fra la psichedelia e l’indie-pop senza mai lasciare l’amaro in bocca è difficile da trovare, specie in tempi come questi, dove ormai le copie conformi dei generi alla moda sono un pò ovunque. Tuttavia, il rischio è il secondo album, che è sempre il banco di prova definitivo in cui dimostrare se le idee sono state solo una meteora o le fondamenta di un progetto musicale reale.

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