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Cosmo – “Cosmotronic” (42 Records)

Gli anni zero lasciavano un vuoto, una necessità di equilibrio. All’improvviso, il ritorno, il revival, da più parti come una cascata. Arrivavano gradualmente nuove sonorità d’oltreoceano che gettavano le basi dell’indie-rock; si ritornava ad apprezzare una buona dose di post-punk, così come il glam-rock. Ma, in tutto questo, l’elettronica si faceva strada e cercava di imporsi attraverso nuovi approcci, anche generando micro-cosmi musicali. Tutte queste interazioni musicali creavano effetti anche sul cantautorato italiano, percependo gli effetti di questa trasformazione, soprattutto nella melodia, ma cercando una nuova strada, personale e sincera. Cosmo, al secolo Marco Jacopo Bianchi, classe 1982, è uno dei sopravvissuti di questo cambiamento. La dimensione sintetica, il suono campionato, i turbamenti emotivi e i riferimenti a continui passaggi empatici caratterizzano la sua terza fatica, Cosmotronic.

Il lavoro si presenta come un viaggio personale, una discesa nelle pulsioni elettriche, che cambiano in base all’umore del momento, quasi il disco fosse una lunga traccia di suono che si scontra con dubbi e paure. In un momento storico in cui le nuove idee del cantautorato fanno i conti con le generazioni cresciute a pane e synth-pop (dai primi segnali del 2011 avuti da I cani di Niccolò Contessa, per poi passare all’autoironia beffarda de Lo Stato sociale, arrivando all’empatia quasi mistica di Jacopo Incani/Iosonouncane) ecco che Cosmo riporta tutto ad uno stato di leggerezza quasi spontanea. I suoi passaggi narrativi portano a risposte personali che nascono dalla quotidianità, le strade diventano percorsi interiori (Sei la mia città fuori dal tempo, Sei la mia città è un complimento), la periferia una stato dell’anima, i difetti una necessità. Non c’è nessuna formula segreta che dia certezza a sentimenti e orizzonti, ma solo una sequenza ragionata di sessioni musicali in linea con la personalità dell’autore.

Fin da Turbamento sino a Tutto bene, si scoperchia un senso di inquietudine attesa e disegnata nei contorni. Fare la guerra a se stessi è una sfida ardita, interessante se combattuta attraverso una sintesi di suoni e sfoghi immediati, campionati nella loro essenza. Cosmo si aggira nei meandri delle delusioni personali, della civiltà isolata, per poi tornare all’abbandono della speranza (“Tu non vali niente, esattamente come me”). Ogni tanto, un brano più lungo in cui soltanto i battiti sonori percuotono l’ascolto, rimarcando le fratture emotive e gli stati d’isolamento. Non è la prima volta che si tenta di immedesimarsi in un’inadeguatezza generale verso la gente, ma ancor prima verso se stessi. Sullo sfondo, arrivano frammenti di telefonate, componimenti sonori istantanei, una sensazione di notte profonda, quasi interminabile. Questi ritmi, uniti ad una disillusione che trabocca dai versi, dalle parole e soprattutto dalla voce, rendono Cosmo un testimone smarrito, in cerca di risposte o magari anche di una reale felicità. Nel frattempo, le melodie cambiano, si mescolano a questi suoni frammentati, a volte prolungati, ma sempre destinati ad un intimo allontanarsi dal tutto. Ogni traccia dell’album è un’istantanea personale, un abbraccio elettronico, a volte reattivo, altre volte dimesso, ma tornano sempre quegli echi improvvisi, quei versi nello sfondo del brano, quasi a comunicare un flusso di coscienza continuo che non svanisce mai.

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