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LCD Soundsystem – American Dream (2017 DFA/Columbia)

By marzo 2, 2018 No Comments

All’indomani del “Long Goodbye” al Madison Square Garden, la sensazione diffusa riguardo allo scioglimento degli LCD Soundsystem era che la band si fosse defilata appena in tempo, un attimo prima di essere fagocitata dalla smania della hit dance-punk, ormai entrata prepotentemente nell’odiosa vulgata indie rock. Un’uscita di scena pertinente, insomma, che ha reso più digeribile la fine di uno dei migliori progetti che avessero visto la luce nei primi anni zero. Non sarebbe poi tanto azzardato sostenere che James Murphy abbia nuovamente azzeccato il momento giusto, quando ha annunciato la reunion e la pubblicazione di un nuovo album. Ma questa consapevolezza era latente, non si avvertiva fino all’uscita di American Dream.

E così, a sette anni da This Is Happening, gli LCD si ripresentano con un album “che suona come un album”, come ebbe a dichiarare Murphy in un’intervista su uno dei suoi lavori precedenti. Un disco coerente nel suo complesso, ma incredibilmente particolareggiato nelle singole tracce. Già dalle prime battute il sound metropolitano che ha sempre caratterizzato i lavori di Murphy si ripropone in grande spolvero, come se tutto fosse stato soltanto messo in pausa; ma il rischio di trovarsi davanti un disco che puzzi di già sentito si dirada di brano in brano. Soprattutto, emerge prepotentemente l’influenza delle due principali esperienze che negli ultimi anni hanno visto l’eclettico frontman impegnato dietro al banco del mixer, ovvero Reflektor e Blackstar (pare sia stato proprio Bowie a spingere Murphy a riformare la band).

Influenze che è impossibile non notare ascoltando il doppio lato A Call the police/American dream, pubblicato a maggio, che ha il merito di aver allontanato quella paura di un flop che aleggia nell’aria ogniqualvolta una band pronunci la parola “reunion”. Il primo è un brano orgogliosamente pop, che riprende in pieno le sonorità dei bei tempi che furono e le spinge verso un post-punk revival che riesce a suonare incredibilmente fresco. Ma è la title-track che apre scenari inesplorati e lascia presagire l’arrivo di un disco sorprendente. Il sound Doo-wop anni ’50 si veste di sintetizzatori e ci regala l’immagine di un’America gaia e rassicurante. Una spensieratezza che subito si va a scontrare con un testo durissimo (espediente di vecchia data per Murphy, dai tempi di Losing my edge), che descrive l’introspezione piena di rimpianti di un ragazzo in hangover, dopo una notte di allucinazioni: un ritratto della generazione che ha vissuto l’ultimo colpo di coda del sogno americano, gli sregolatissimi anni ’90, con il loro lascito di disillusione e amaro in bocca. A cornice di questa straziante immagine c’è un basso sintetico ostinato e synth cristallini a cascata, che ci regalano sonorità inedite per gli LCD, gestite con grande sapienza e addirittura in grado – chi l’avrebbe mai detto? – di farci commuovere.

L’uscita di American Dream ha creato una quantità di aspettative che a lungo andare hanno finito per stancare. Ma il risultato, con grande stupore di chi lo attendeva, è andato ben oltre le congetture, a dispetto delle facili polemiche a partire dalla copertina, definita da alcuni “una slide di Power Point”. Già la sola intro di Oh baby si presenta come un tentativo di riprendere il filo di un discorso interrotto sette anni prima. E questa sensazione si avverte per tutto il disco, riportandoci sul terreno delle sonorità già esplorate (Other voices, Tonite), ma arricchite di nuova consapevolezza (Change yr mind, Emotional haircut). I testi sono sferzanti nella loro semplicità e spesso vengono usati come slogan in loop, caratteristica comune ai tre lavori precedenti. Tornano anche i brani lunghi e catartici, tanto cari a Murphy nelle performance dal vivo: se Yeah fu un cavallo di battaglia che suonava incredibilmente meglio live che su disco, How do you sleep, con il suo ossessivo “Standing on the shore”, ne è in qualche modo figlia, col suo incedere lento e graduale, su cui si staglia una voce esasperata in una spirale di riverberi. Black Screen entra in punta di piedi per chiudere il sipario, dopo nove brani, dandoci un’ulteriore conferma che in questo album le fasi di sperimentazione verso nuovi territori sono affidate principalmente ai momenti più distesi.

Inutile pescare uno ad uno i richiami a Bowie, così come le citazioni dei Suicide e gli ammiccamenti ai New Order. Di sicuro c’è il fatto che di un disco così, in questo preciso momento, c’era un disperato bisogno. Un disco che potremmo definire “post-dance-punk”, dal sound maledettamente newyorkese ma mai esuberante. Genuino, asciutto, senza fronzoli, ma incredibilmente emotivo. Un disco che riesce ancora oggi a incasellare la musica dance nella dimensione di un album. Ecco, di un disco così c’era uno stramaledetto bisogno, ma forse nessuno se n’era accorto. Anzi, a pensarci prima, ci saremmo aspettati un buon lavoro sulla falsariga dei precedenti, ma nulla di sorprendente. E invece è arrivata una perla, fra i dischi migliori del 2017 e probabilmente degli ultimi anni.

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