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“Schlagenheim”: la musica dei Black Midi è fatta di magma

By febbraio 12, 2020 One Comment

Ascolto distrattamente una canzone che passa in radio, immagino che siano i Talking Heads. Shazam mi viene in soccorso. La canzone si chiama “Talking Heads” ma sono i Black Midi.

Soprannominati“la miglior band di Londra” dai compaesani Shame, stanno collezionando sold out ovunque e partecipazioni a festival come il Primavera Sound e il Coachella. Sono quattro giovani ex studenti della Brit School al primo album, chiamato “Schlagenheim”: il gioco di parole tedesco mette insieme le parole “Schlagen” ed “Heim”, rispettivamente “to hit, to beat” e “home”.

Ma chi sono i Black Midi? Una band dall’aspetto sobrio e allo stesso tempo degli autentici animali da palcoscenico nei loro live. Tre componenti su quattro cantano. Il quarto da voce alla batteria. Alla produzione Dan Carey, già noto per Dogrel dei Fontaines D.C.

La loro ricetta mette insieme post-rock, math e prog, oltre che una grande capacità di creare mini suite stratificate ed imprevedibili. Alternano tempi dispari – alla batteria un eccelso Morgan Simpson – e scariche elettriche a placidi momenti à la Slint, tanto per capirci.

 “953” apre l’album al meglio: caotico e calcolato nei minimi dettagli, è un opening dissonante e potente, che può ricordare gli episodi di “Trout Mask Replica”.

È lo stile del principale vocalist della band, Geordie Greep, a prevalere. Come un novello Peter Gabriel dei giorni nostri, senza costumi, teatralizza la maggior parte dei pezzi dell’album con un’interpretazione folle, sardonica, alternando canto a spoken words. “Western”, ad esempio, è una cavalcata epica, forse il brano migliore dell’album. Rende omaggio ai duelli e ai paesaggi polverosi visti al cinema. “Of Schlagenheim” è il racconto di un amplesso, “bmbmbm” è un’inquietante lode ad una donna, molto vicina ai più scandalosi Throbbing Gristle.

Due momenti dell’album vedono il bassista Cameron Picton alla voce: “Speedway” è ipnotica nel suo incedere e sembra figlia di “154” dei Wire, “Near Dt, Mi” è, invece, un breve episodio hardcore che parla di acqua, come quella che inonda, sull’enigmatica copertina, i rottami della contemporaneità, mentre sbuca fuori un grosso pesce. Paesaggio distopico-futurista? Schlagenheim.

“Years Ago” è un altro breve intermezzo, questa volta è il chitarrista, addetto ai rumori, Matt Kwasniewski-Kelvin alla voce a condire l’episodio più industrial del lotto.

Si arriva così alla fine, almeno nell’edizione ufficiale, con l’estrema “Ducter” dove Greep si rende protagonista di un crescendo narrativo davvero notevole che non lascia scampo.

“Schlagenheim” è un album difficile da definire, che forse non sarà eterogeneo dall’inizio alla fine, ma che importa. Questi quattro ragazzi hanno realizzato un album miracoloso, che merita diversi ascolti e che non lascia mai indifferenti. Il loro sound è puro magma che travolge tutto.

Da segnalare altre quattro tracce: la placida “7-eleven” (Youtube bonus track), la già citata “Talking Heads” e “Crow’s Perch” (entrambe presenti nell’edizione giapponese dell’album) e ancora la freschissima di pubblicazione digitale “Sweater”, suite di 11 minuti proveniente dalle stesse sessioni di “Schlagenheim”.

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