Throwbacktime

Big Country Steeltown 1984

By agosto 27, 2018 No Comments

Chi è Steve Lillywhite e perché parliamo di lui? Se compravate dischi negli anni ottanta, il suo nome dovrebbe esservi abbastanza familiare.  Lo trovate come produttore nei primi tre album degli U2, degli Ultravox, Simple Minds, persino nel terzo di Peter Gabriel, quello pre – terzomondista.

E lo troviamo anche in Steeltown dei Big Country, gruppo scozzese formato da una costola, anzi due costole, degli Skids, formazione Punk  che avrebbe meritato sorti migliori.

Infatti, i due chitarristi, il mai abbastanza compianto Stuart Adamson e Bruce Watson, all’inizio degli anni ottanta decidono di fare comunella con il bassista Tony Butler e con il batterista Mark Brzezicki, un cognome che è anche un codice fiscale. Abbandonato lo stile del vecchio gruppo, Adamson e Watson, decidono di guardare alle loro comuni origini, e dopo qualche tempo licenziano il primo lavoro omonimo – sempre prodotto dal buon Lillywhite – che tra qualche pecca iconografica, mostra spunti interessanti e soprattutto fa sentire quello che sarà il marchio di fabbrica della band, cioè il lavoro delle chitarre elettriche che riproducono le melodie celtiche delle cornamuse. Ma è con il successivo, uscito dopo nemmeno un anno, Steeltown, che i Big Country centrano l’obbiettivo. Alfieri, insieme ai gallesi Alarm e agli irlandesi U2, dell’orgoglio indipendentistico della new wave britannica, si concentrano su una scrittura sociale, più vicina allo Springsteen proletario, che ai testi e alla musica evocativa del paesaggio scozzese del primo album.

Già si capisce dalla titletrack, dedicata ai lavoratori scozzesi e agli scioperi del periodo, contro l’oppressiva riforma del primo ministro Margaret Thatcher , che a quanto pare non aveva solo Morrisey, come fan, oppure dalla fiammeggiante – non poteva essere altrimenti – apertura di Flame of the West, che mostra il quartetto in stato di grazia. E poi c’è East of Eden, che contiene i marchi di fabbrica della premiata ditta Lillywhite, chitarre riverberate che suonano metalliche e la batteria, marziale, secca, come si ascolta nelle sue altre produzioni, canzone  che fu anche il primo singolo dell’album,  ispirata dall’omonimo romanzo di Steinbeck.   

Ma è nei ritratti intimi, che Adamson –  autore di quasi tutti i brani – sfoderata una sconosciuta dolcezza. Ascoltate Girl with Grey Eyes, e dopo di ciò chiederete alla vostra lei di mettere delle lenti a contatto grigie, solo per il piacere di dedicarle il pezzo, oppure godetevi lo sciame chitarristico di Just a Shadow, con il suo refrain da stadio. 

Purtroppo il disco successivo non sarà all’altezza dei precedenti. Alla ricerca di un successo più commerciale la band modificherà in parte il suo stile, e anche gli altri lavori che seguiranno non saranno nulla di particolare, mostrando anche una certa ripetitività. Con la fine degli anni ottanta, anche i Big Country vedranno tramontare la loro stella, tornando, purtroppo, agli onori delle cronache nel 2001, in occasione del suicidio di Stuart Adamson, vittima del cane nero della depressione.

Però se doveste scegliere la Scozia per le vostre vacanze estive, caricate Steeltown sul vostro Ipod. Magari vi troverete a Loch Ness , e invece di guardare la superficie del lago alla ricerca di un fantomatico e improbabile mostro, vi potreste scoprire a canticchiare “ …It’s just a shadow of the people we should be , Like a garden in the forest that the world will never see …” .

Un buon modo per ricordare una grande band.

Leave a Reply