Recensioni

Jack White. Boarding House Reach

By aprile 11, 2018 No Comments

In un’intervista di qualche giorno fa, Jack White ha auspicato l’arrivo sulle scene dei nuovi Nirvana. Il che, a suo dire, rappresenterebbe la salvezza per i giovani d’oggi, tristemente inghiottiti dal web, che ha finito per uccidere ogni loro curiosità. E per fugare ogni accusa di impertinenza si è affrettato ad aggiungere che anche ai Beatles dicevano che le chitarre non andavano più, e invece loro le hanno riportate di moda. Nella stessa intervista gli si chiedeva un’idea per risvegliarla, questa curiosità dei ragazzi ammorbata dall’internet: “Io riparto dall’hip hop”, ha risposto.

Questi pochi concetti sono più che sufficienti ad esprimere l’essenza di un artista eclettico e in continuo movimento, così come ce lo descrive la sua produzione musicale: un braccio proteso verso la tradizione, con fare nostalgico, uno sguardo ammiccante alla modernità e la ricerca costante di una sintesi in cui queste due anime possano convivere. Ancora una volta, ascoltando Boarding House Reach, si ha la conferma che Jack White sia un musicista che nella querelle fra vecchio e nuovo ha deliberatamente scelto di accomodarsi nel mezzo, cercando una terza via, quella dell’equilibrio, con risultati indubbiamente sorprendenti. Ma se i primi due album da solista sono pervasi dalla spasmodica ricerca della giusta misura fra passato e presente, questo terzo disco sembra piuttosto concepito con la precisa volontà di fissare un punto, rimarcando quanto detto nei lavori precedenti, ma senza l’ossessione di trovare l’ennesima nuova veste. Si direbbe che gli ottimi giudizi di critica e pubblico su Blunderbuss e Lazaretto (che si è anche meritato un Grammy) abbiano concesso a White il diritto ad aprire una parentesi. In Boarding House Reach la sperimentazione dettata dall’ansia di stupire cede il passo all’esigenza di divertirsi, anche se il prezzo da pagare è quello di aver confezionato un album in cui, già al primo ascolto, si avverte l’assenza del singolo, il pezzo di facile presa, un tipo di brano di cui White è sempre stato maestro.

Senza spingerci indietro ai compianti White Stripes o ai tanti progetti collaterali come Raconteurs e Dead Weather, basterebbe citare brani come Sixteen Saltines e Freedom at 21 nel primo album solista o la title-track del pluriosannato Lazaretto. Ben inteso, la cifra è sempre quella: il bluesman del ventunesimo secolo, per niente fuori posto e con una gran voglia di contaminare il linguaggio canonico del blues. E Conntected by love in apertura sembra proprio voler marcare la certezza che si stia camminando sul sentiero già solcato: un brano soul in cui il synth che sorregge il discorso sulla strofa viene mangiato dall’organo e dal coro gospel nel refrain. Una prima impressione, che trova conferma nelle tracce successive, è che White abbia lavorato sulla voce affinando ulteriormente l’interpretazione. Sembra che la tracklist sia stata pensata secondo un’alternanza di sonorità già collaudate e di sperimentazioni libere, come la struttura asimmetrica di Corporation, con una lunga introduzione strumentale in pieno stile afrobeat (le percussioni, in verità, vanno e vengono per tutto l’album) e uno spoken word spiazzante che arriva al terzo minuto, costituendo uno dei brani più interessanti dell’album. Hypermisophoniac gioca principalmente su un loop sintetico che si ripete ossessivamente per tutta la durata del brano, costituendone lo scheletro: l’impressione è che senza quel loop sarebbe un discreto pezzo senz’arte né parte. Ice Station Zebra dà un senso a quel sopracitato “riparto dall’hip hop”, sia per il testo declamato che per i chiari richiami a un old school rap, alla Rockit di Herbie Hancock, per intenderci. Il tutto a dispetto di un pianoforte in apertura che sembra voler introdurre un brano soul. Respect commander è una sorta di compendio della scrittura di Jack White: cambi repentini di beat, un andirivieni di Synth e campionamenti che danno vita a un blues dall’incedere lento, con tanto di assolo finale in overdrive. Insomma, il ragazzo vuole solo divertirsi. E continua a farlo meravigliosamente e senza troppe pretese in Get in the Mind Shaft, mettendo da parte per cinque minuti l’amata chitarra, ma non per sedersi al piano come accade solitamente. Humoresque potrebbe sembrare il classico espediente del brano in pianissimo in fondo alla tracklist, invece chiude meravigliosamente, con una coda magistrale nella sua semplicità: un commiato pacato e signorile in chiusura di disco.

In definitiva, questo lavoro sembra pagare lo scotto di essere stato concepito dopo un acclamato capolavoro come Lazaretto, ma come una buona parte di quei dischi a cui tocca questo fardello, non ha la pretesa di essere una replica del precedente. Il punto a favore è che tutto quello che tocca Jack White diventa meritevole di essere riascoltato e approfondito. Perché, in fondo, la bravura di White sta nel propinarci da anni la stessa minestra riuscendo ogni volta misteriosamente a farcela piacere. E anche stavolta c’è riuscito.

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