HOMEThrowbacktime

Trout Mask Replica: l’atto di fede di Captain Beefheart and His Magic Band

By gennaio 27, 2020 One Comment

Il 16 giugno del 1969 vide la luce “Trout Mask Replica” di Captain Beefheart and His Magic Band. Non un disco, ma un atto di fede. Lo è stato, un atto di fede, anzitutto nel momento della sua creazione, perché i musicisti si affidarono totalmente a Don Van Vliet, Capitano di nome e di fatto. Lo è ancora oggi, quello stesso atto di fede, perché chiunque lo ascolti non ha bisogno di chiedersi né come né perché.

Portare ordine nella storia di un disco così “disordinato” è praticamente impossibile. È un racconto complesso, a tratti grottesco e surreale, ma comunque in grado di trovare il suo lieto fine (e qui avete la libertà di dare all’aggettivo “lieto” il significato che preferite). I personaggi sono tantissimi, tra membri ufficiali della band e ospiti di vario tipo.

Quelli che si possono certamente elencare sono Don Van Vliet – meglio noto come Captain Beefheart – Bill Harkleroad, Jeff Cotton, Mark Boston, Victor Hayden e John French. A loro va aggiunta una special guest davvero speciale: Frank Zappa (quell’incosciente di Frank Zappa, aggiungerei), l’unico che ebbe l’ardire di produrre il disco. Proprio lui offrì al Capitano la possibilità di registrare in totale libertà artistica.

“Oh it sounds like a ball of rusty barbed wire” (Andy Partridge, XTC)

Fermiamoci subito un secondo, per capire meglio la genesi delle 28 tracce di “Trout Mask Replica”.

Per comporre, il Capitano utilizzò il pianoforte, nonostante non lo avesse mai suonato in precedenza e non avesse alcuna conoscenza teorica in merito. John French trascrisse su uno spartito quella musica, creando delle vere e proprie composizioni, da far suonare a questo o a quell’altro strumento. Quasi tutte le canzoni furono composte al piano, mentre le restanti erano parti che venivano fischiettate da Van Vliet. Qualche altra venne composta al piano mentre gli altri ne fischiettavano il motivo.

Se siete un po’ confusi, va benissimo così. Lo è anche chi scrive.

La band lavorò sulle composizioni per circa otto mesi, condividendo per tutto quel tempo una casa presa in affitto a Woodland Hills, quartiere periferico di Los Angeles.

In origine, Frank Zappa avrebbe voluto registrare il disco in quella casa. Insieme all’ingegnere del suono Dick Kunc, effettivamente, qualcosa venne registrata, facendo suonare ogni strumento in una stanza diversa. L’organizzazione, però, non andò proprio a genio a Van Vliet, che pretese uno studio di registrazione professionale: qui, in una singola sessione di 6 ore, il gruppo incise 20 tracce strumentali.

Per sovraincidere le parti vocali, quel furfante del Capitano, invece di cantare seguendo le tracce strumentali con le cuffie, improvvisò il cantato risentendo i nastri delle registrazioni sul momento. Per questo motivo la voce è spesso fuori sincrono rispetto agli strumenti. Non le tollerava, quelle benedette cuffie.

“It makes Tom Waits sound like Julie Andrews” (New York Times, 2010)

Non starò qui a parlare delle singole tracce, limitandomi semplicemente a dire che è molto interessante scorrere i titoli uno dopo l’altro e che, almeno una volta nella vita, è doveroso leggere i testi. Una cosa, però, dovete concedermela: una piccola riflessione su “Frownland“, la prima traccia. È lei, probabilmente, la chiave di tutto. Il suo sporco lavoro, cioè aprire un disco come Trout Mask Replica, lo fa egregiamente: il suono stordisce e la voce roca del Capitano non addolcisce un bel niente.

Ed è fantastico così.

Ogni dettaglio che riguarda questo disco ha contribuito a renderlo ciò che è. La copertina, con Don Van Vliet che si copre il volto con una carpa (la “replica” di una trota); le modalità di composizione e registrazione (giusto per dirne una: la voce in “The Blimp (mousetrapreplica)” venne registrata al telefono); la scelta delle parole; il suono complessivo, che trae ispirazione dal blues, dal free jazz e anche dal folk, diventando rock sperimentale.

“Trout Mask Replica” insegna che bisogna dare tempo al tempo. E che, molto spesso, soltanto la strada più assurda conduce alla destinazione più straordinaria.

One Comment

Leave a Reply