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Arctic Monkeys: Tranquillity Base Hotel & Casino

By maggio 12, 2018 No Comments

Cambiare idea non è mai un cattivo proposito, soprattutto nell’arte. A volte questa scelta è sinonimo di forzature e di poca sostanza. Quando, tuttavia, l’ispirazione è guidata anche dalla libertà di cambiare territorio, immagine e metodo con un disegno ben preciso, si scorge la vera maturità artistica. Il talento, se davvero presente,  suggerisce nuove strade, prospettive inattese dai risultati stimolanti. E’ il caso di Tranquility Base Hotel & Casino, la sesta opera degli Arctic Monkeys. Vale la pena soffermarsi sulla genesi di questo progetto maestoso. Tutto nasce da un regalo di compleanno ad Alex Turner, frontman e cuore pulsante della band, per il suo trentesimo compleanno, precisamente un pianoforte, uno Steinway Vertegrand. I brani cominciano a essere buttati giù nel 2016, ma ciò che importa è che da questo disco in poi si varca un confine, prima inesistente. Anche gli Arctic monkeys hanno deciso di abbandonare un certo percorso musicale, perché decidere di diventare grandi è come capire cosa si vuole fare davvero da grandi. Al diavolo le chitarre, i ritornelli martellati dalle tinte garage, le contaminazioni post-punk. Niente effusioni melodiche in stile Brianstorm e When the sun goes down. Il terreno in cui ci si imbatte adesso è totalmente stravolto, dando quasi l’impressione che Alex Turner volesse realizzare un progetto solista, ripercorrendo al pianoforte generi fino a questo momento assenti nella sua identità. Uno spartiacque in tutto e per tutto. Niente frangettoni, chitarre acide, percussioni ossessive (la batteria di Matt Helders sembra quasi inesistente in certi punti, l’opposto dei tempi di From the Ritz to the Rubble). La spensieratezza, sempre molto equilibrata e ragionata, di Turner e soci, che dal 2006 in poi ha disegnato un prisma di sonorità mutevoli, taglienti, principalmente nel brillante esordio Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not, ma anche nel successivo emozionante Favourite Worst Nightmare, si è spostata in dinamiche più malinconiche nel terzo disco, Humbug, forse per gli intrecci acustici che donano allo stile una personalità in divenire. Ma, nonostante i possibili passaggi stilistici ed estetici di un marchio musicale assolutamente consolidato nelle sue meccaniche interne, anche Suck it and see non prevede alterazioni così strutturali, ma una necessaria e apprezzabile immaginazione che cambia prospettiva e si evolve. Allo stesso modo, AM è una splendida visione musicale post-punk che rispecchia le doti del quartetto inglese senza mai riflettersi nei lavori precedenti. Queste precisazioni sono necessarie per giungere a Tranquility Base Hotel & Casino, che si pone come disco inverso, concepito quasi come un viaggio futuristico che, però, guarda al passato nei dettagli e nello stile. Le atmosfere non sono immediatamente nitide: seguire la simbiosi fra voce e pianoforte tende quasi a stregare l’ascolto, perché ci si aspetta da un momento all’altro il titolo di testa di un musical fantascientifico. Ma tutto questo è solo il preludio, perché già da Star treatment, brano di apertura che teletrasporta in una scenografia in bianco e nero, è l’abbandono del tempo personale, la dissolvenza di un passato spensierato percepibile dal verso di apertura: “I just wanted to be one of the Strokes, now look at the mess you made me make, Hitchhiking with a monogrammed suitcase, Miles away from any half-useful imaginary highway, I’m a big name in a deep space”. Tutto vero, perché Turner sognava di essere uno dei Strokes, estasiato da quell’onda nuova del terzo millennio. Ma ora si perde tutto in un’autostrada immaginaria, un tunnel di ricordi che genera musica dal futuro e si estende fino alla luna. One point perspective cerca di chiarire maggiormente la struttura del disco: un viaggio noir nello spazio senza meta. American sports, in perfetta sintonia, richiama ritornelli cari alla band, ma si impianta nelle note di un pianoforte sofferto. Fino a qui, l’intero disco già è sufficiente a definire Alex Turner come cantautore ispirato da una nostalgia interiore, proprio per quell’affinità fra voce e suono e quella disinvoltura che trasmette un intimismo concreto, una necessità di cantare quei versi. La title-track, Tranquility Base Hotel & Casino, com’è giusto che sia, non delude minimamente, lasciando immaginare Turner in un hotel sulla luna che butta giù le bozze dei brani mentre guarda le stelle. Golden Trunks lascia intendere, con quei laconici segnali di chitarre echeggianti e quei ritmi sempre contenuti, un contesto al limite dell’immaginario, con quel crescendo finale che, tuttavia, mantiene il brano in una sorta di limbo. Four out of five, forse il brano più ordinario, instilla un senso di profondo isolamento individuale da unirsi all’obiettivo di mantenere il disco, comunque, come il prodotto collettivo di una band. Turner, qui in veste di autore decadente ma immerso in una dimensione che affonda nella psichedelia più minimale, dimostra una propensione alla versatilità, soprattutto in brani come The World’s First Ever Monster Truck Front Flip, che sembrano direttamente precipitati dagli anni ’60. Science fiction, così come She looks like fun, mettono in evidenza forse in modo maggiore la presenza del resto della band, grazie alla presenza di suoni che si pongano in parallelo rispetto al suono dominante del piano. Batphone è una splendida fusione di intermezzi al limite del jazz e intermittenze elettriche, ma soprattutto una progressiva immaginazione fantascientifica, sempre con i piedi per terra. Allo stesso modo, The ultracheese, approdo finale di questo viaggio interstellare, conclude quest’allucinazione musicale con una ballata, forse la Cornerstone dell’intero album. Tranquillity Base Hotel and Casino è un album misterioso, da considerarsi forse un concept-album per quel senso di spaesamento, comune ad ogni brano, che conferisce una coerenza melodica dell’intera tracklist. Si percepisce, indubbiamente, una transizione artistica, soprattutto alla luce delle sovrastrutture sonore variegate, all’interno di una discografia che si è sempre distinta per l’immediatezza ritmica e l’assimilazione istantanea nella più fiera connotazione garage-rock. Quest’opera è forse il Their Satanic Majesties Request degli Arctic Monkeys, ma con una maggiore consapevolezza del futuro: non un album isolato, ma l’inizio della maturità.

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