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SOUNDBOX – Cinque nuove uscite discografiche consigliate da Cristiano Cervoni

Calibro 35 “Decade” (Record Kicks)

Attenzione: Ritornano quelli di… Calibro 35”! Cavina, Gabrielli, Martellotta e Rondanini pubblicano il loro sesto disco in studio e celebrano degnamente dieci anni d’attività. Un traguardo prestigioso raggiunto da una band che era nata per realizzare un unico tributo ai poliziotteschi italiani degli anni settanta. Invece quell’album del 2008 ha preso una piega improvvisa e splendente, proiettandoli in orbita e facendogli sviluppare uno stile proprio, basato sullo spiccato gusto vintage e la perizia tecnica dei quattro musicisti. “Decade” focalizza con undici brani originali lo stato attuale del loro percorso artistico e conferma con merito lo status di respiro internazionale acquisito nel tempo. Si parte con l’estetica afrobeat di “Psycheground”, si prosegue con la blaxploitation di “Superstudio” e si approda alla struttura orchestrale stratificata di “Faster Faster”. “Pragma” è math jazz d’ampio respiro con ritmica afro e fraseggi etnici, “Modulor” incarna un pregevole downtempo e “ArchiZoom” ha un groove evocativo di synth e organo con innesti d’archi e fiati. “Ambienti” è tradizione cinematografica italiana pura ed è un piacere perdersi nelle ricche sfumature armoniche che contiene. “Agogica” si lega perfettamente al mood precedente e lo completa inserendo un pathos maggiore. “Polymeri” è una traccia ritmica sperimentale, come se i primi Tortoise revisitassero Ummagamma. “Modo” focalizza di nuovo l’attenzione sulla commistione tra jazz, soundtrack e afrobeat. Una lunga composizione che si snoda seguendo dinamiche ripetute, rese fresche da incisi intriganti. “Travelers” chiude il disco con un’atmosfera sospesa, a tratti quasi incompiuta, ma dotata di una melodia avvolgente. La produzione di Colliva è come sempre superba, così come l’inserimento di fiati ed archi offerto dall’opera dei sodali Metallo Su Carta. Una versione della band probabilmente meno immediata, ma più ricca nella proposizione sonora e con sfumature di classe pura. Un ritratto che li mostra in una fase di profonda e crescente maturità artistica.

Fire! “The Hands” (Rune Grammofon)

Conoscete i Fire!? Trio di Jazzcore svedese capitanato da Mats Gustaffson (The Thing) ai sassofoni ed elettronica, con Johan Berthling (Tape) al basso elettrico e contrabbasso e Andreas Werlin (Wildbirds & Peaceful) alla batteria e alle percussioni. Nato come supergruppo nel 2009, possiede una sapiente capacità d’improvvisazione, miscelando elementi di free jazz, rock psichedelico e noise ed è giunto al sesto album, comprese le collaborazioni con Jim O’Rourke e Oren Ambarchi. Dal 2013 è anche Orchestra, con l’aggiunta variabile di oltre venti elementi della nuova scena jazz scandinava e la pubblicazione di quattro meravigliosi dischi con questo progetto. Ma parliamo del disco. Il brano iniziale “The Hands”, oltre ad intitolarlo, ne chiarisce subito le intenzioni: un denso, scuro ed intenso magma sonoro, con un approccio molto fresco alla materia improvvisativa. Il basso distorto ed un pattern ripetuto di batteria creano un bordone ipnotico, su cui il sassofono baritono di Gustaffson imperversa incisivamente. “When Her Lips Collapsed” continua sulla stessa linea, ma rallentando ancora il tempo e lasciando che il liricismo del sassofonista risulti ancora più straniante. Un mantra che avvolge, un sabba alla ricerca dei demoni della propria esistenza. La successiva “Touches Me With The Tips Of Wonder” ci riavvicina al jazz, anche rimanendo sospesa in un’atmosfera assolutamente funerea. “Washing Your Heart In Filth” unisce un approccio jazzcore a suggestioni afro, con un bel lavoro di drumming da parte di Werlin. “Up and Down” rappresenta una sintesi perfetta dell’approccio free della band. Il tenore di Gustaffson sfiora vette ascetiche e la ritmica si mantiene su skills di noise ben calibrato. Gli oltre nove minuti di “To Shave The Leaves In Red In Black” sono doom allo stato puro, senza aver bisogno di utilizzare chitarre. La riflessiva “I Guard Her To Rest, Declaring Silence” mette fine alle ostilità. Una bellezza devastante!

No Age “Snares Like A Haircut” (Drag City)

Cambio di scuderia per i No Age, che dopo aver inciso tre album per la Sub Pop, approdano alla Drag City. La band aggiunge un dinamismo maggiore alla cifra stilistica  raggiunta con il precedente “An Object” del 2013. Indie rock pervaso da pop sperimentale, noise chitarristico e attitudine punk, frutto di una buona vena compositiva ed un pizzico di sana follia. Questa la ricetta vincente del suono del duo losangelino, che anche in questa occasione si conferma una delle band più interessanti del sottobosco statunitense. Parte “Cruise Control” e l’atmosfera che si respira ricorda gli Hüsker Dü versante Mould e quel pop punk core chitarristico che gli apparteneva. “Stuck In The Changer” è una pop song shoegaze potente, mentre la successiva “Drippy” richiama i Sonic Youth del periodo SST. “Send Me” potremmo definirla come una sorta di pop punk ballad, con un andamento piacevolmente scanzonato. “Snares Like a Haircut” è un lunga performance ambient sospesa e minacciosa. “Tidal” riporta le coordinate in territori cari alla gioventù sonica, con un drumming muscolare ed un ampio uso di fuzz e distorsioni. “Soft Collar Sad” e “Popper” sono due brani punk noise che non avrebbero sfigurato affatto come prodotto della scena di Seattle di qualche tempo fa. “Secret Swamp” è un bell’esempio di emocore melodico a stelle e strisce, con un gran lavoro centrale della chitarra. “Third Grave Rave” è il secondo episodio ambientale strumentale e sembra frutto di una jam psichedelica tribale. “Squashed” recupera una certa tradizione new wave d’ispirazione krauta, contraddistinta da synth avvolgenti, canto svogliato e  ritmica marziale accennata. “Primitive Plus” è un viaggio a base di psych-space lisergico ed espanso, che cessa bruscamente lasciandoci nell’oblio del silenzio finale. Dean Spunt e Randy Randall sono tornati rinvigoriti dai cinque anni d’assenza e per noi è davvero un piacere lasciarsi sedurre.

The Shins “The Worms Heart” (Sony)

Operazione bizzarra quella degli Shins, che pubblicano un album di versioni alternative del precedente “Heartworms”, uscito a marzo dello scorso anno. Gli undici brani in questione vengono letteralmente capovolti, sia nella sequenza della tracklist che nelle atmosfere: quelli veloci diventano lenti, quelli elettrici diventano acustici e viceversa. Non si tratta di remix, ma di composizioni con arrangiamenti totalmente nuovi che mantengono titoli e testi originali. L’operazione potrebbe sembrare ridondante, ma risulta piacevolmente riuscita nel ripercorrere il viaggio precedente a ritroso. “The Fear” omaggia egregiamente i Velvet Underground e scorre sorniona e suadente. “So Now What” è un bel synth pop che avvolge i sensi e si lascia apprezzare. “Heartworms” segue lo stesso mood, ma con attitudine più happy electro e un ritornello particolarmente accattivante. “Dead Alive” è una ballata d’effetto con un bel crescendo finale, che ricorda l’atmosfera tipica degli esordi della band statunitense. In “Half a Million” James Marcer e soci giocano con il reggae e dal risultato ottenuto, credo si siano divertiti anche molto. “Rubben Ballz” è un folk pop delicato, con un bell’inciso vocale sia all’interno che in chiusura. “Mildenhall” è un boogie scalcinato, che sembra frutto di una jam dalla spiccata alterazione alcolica. “Fantasy Island” è un brano pop scarno e forse quello meno efficace. Il successivo “Cherry Hearts” invece è uno dei più riusciti del lotto, incarna uno spirito vintage e psichedelico nell’uso delle chitarre, chiudendo con un finale ad effetto. Il livello si mantiene alto con “Painting a Hole” e la sua costruzione dal gusto lisergico in una struttura squisitamente pop. “Name For You” chiude il tutto con un electro synth pop di matrice eighties, infarcito di chitarre e dal ritornello radiofonico. In definitiva ci mostrano come sviluppare idee in maniera diametralmente opposta, donando loro piena credibilità, anche senza il confronto con le precedenti.

Tune Yards “I Can feel You Creep Into My Private Life” (4AD)

Quarto album per Merril Garbus aka Tune Yards, realizzato con l’aiuto di Nate Brenner, bassista e oramai membro effettivo del progetto. I due confezionano una vibrante analisi dello stato sociale e politico dei nostri tempi, affrontando temi come la discriminazione razziale e il sessismo. Per farlo usano il linguaggio musicale a loro più congeniale: una sapiente miscela di pop anni 80 e 90, elettronica di vario genere, voci stratificate, digitalizzazioni etniche ed afrobeat. Il messaggio è sempre più diretto, proseguendo il lavoro avviato dal precedente “Nikki Nack”. L’immediatezza comunque non elimina del tutto la stravaganza nella proposta, semmai la canalizza verso una maggiore fruizione. La capacità compositiva del duo sta nel rendere interessanti, anche gli episodi più leggeri o i passaggi più ruffiani, offrendo soluzioni eccentriche quell’attimo prima di risultare banali. Il resto è un sincero coinvolgimento ritmico forgiato dall’urgenza comunicativa e da una fisicità da dancefloor, che si manifestano fin dalle prime note dell’iniziale “Hearth Attack”. Da quì si sprigiona quell’audace dinamismo che si protrarrà in tutti i dodici brani presenti, trasformandosi quanto basta per agevolare le introspezioni timbriche di “Home” e “Who Are You”. “Coast To Coast” affronta il marcio della grande mela con un sentimento pop di forte attualità e “ABC 123” fa la stessa cosa, trattando gli incendi razziali californiani con efficacia formale radiofriendly. “Now As Then” è un r’n’b denso e accattivante. “Honestly” affronta il razzismo instituzionale, mentre “Colonizer” si spinge oltre, incarnando a pieno il senso di colpa bianco della Garbus, di fronte ai soprusi fisici e culturali subiti dagli afroamericani. Pezzo stellare! “Look At Your Hands” è una delle hit presenti è riesce a mantenere freschezza anche dopo vari ascolti. “Hammer” e “Private Life” hanno doti liberatorie sciamaniche, mentre la conclusiva “Free” sancisce degnamente il discorso con il migliore tra gli auspici possibili.

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