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Dagli Appennini alle Ande. Intervista a Max Collini

Il 23 marzo, Max Collini sarà ospite dell’Arci Porco Rosso per “Dagli Appennini alle Ande” un reading di opere a lui care, scritti inediti, testi degli ODP e Spartiti. Quando mi hanno chiesto di intervistarlo, me ne sono andata un po’ in confusione: nessuna, nessuna domanda mi sembrava meritevole di essere fatta. Alla fine ho optato per una chiamata al volo, convinta che qualcosa sarebbe uscito fuori. E per fortuna lui ama molto parlare, raccontarsi, e sono state quasi due ore di chiacchiere davvero belle.  à vous!

 

Collini, torni a Palermo per un reading all’Arci Porco Rosso dopo dieci anni e sembri pure entusiasta della cosa. Perché? che ricordi hai di questa città? 

Il primo concerto che ho fatto a Palermo fu nel 2005, era appena uscito Socialismo Tascabile. Un concerto da perfetti sconosciuti: nessuno si era ancora accorto di noi, se non qualche lungimirante ed attento lettore di riviste specializzate. Suonammo al Ask 191, un centro sociale molto radicale, “blindato”. Un posto che veniva aperto e chiuso in modo molto particolare: la mattina i ragazzi aprivano e portavano dentro tutta l’attrezzatura necessaria ai concerti e finita la serata smantellavano tutto e portavano via, perché trovandosi all’interno di un’area sottoposta a sequestro ciò li esponeva ad atti di vandalismo. La cosa mi colpì molto: non avevo ancora visto niente del genere, e questa esperienza non mi è mai più ricapitata nemmeno nei 10 anni successivi della mia carriera.


Cosa ti ha colpito?

Di quei ragazzi mi ha colpito l’assoluta abnegazione, la loro consapevolezza di portare istanze sociali molto forti in un quartiere sostanzialmente borghese, con profonda convinzione e dedizione. Cioè, fare il comunista a Reggio Emilia credo fosse più facile che farlo a Palermo, soprattutto occupare un centro sociale andando a mettere il becco in interessi non proprio leciti. E mi sono reso conto di quanto fosse privilegiato il mio punto di vista da comunista in una città da sempre di sinistra.


I tuoi testi raccontano la storia, affrontano temi importanti attraverso il filtro del microcosmo individuale. Tu rendi familiari, nel vero senso della parola, fatti che ti riguardano, passando sottobanco un contesto molto più ampio…

Sì, è mia abitudine raccontare una discreta quantità di cazzi miei (ride)


…e quindi io vorrei sapere come nascono i tuoi testi!

Io ho sempre usato questa metafora per descriverlo: il panorama ideologico, culturale e storico, nel quale sono inserite le mie storie è un acquario. Nell’ acquario nuotano dei pesci, ovvero le mie storie, e l’acqua è il contesto dove queste storie sono immerse. Quindi ci sono due piani: quello autobiografico e lo sfondo nel quale si dipana la storia che è molto più universale. È anche un po’ un artificio retorico non voluto, in realtà. Non é che io mi sia dato una tecnica narrativa, non mi ritengo tecnicamente un vero scrittore. Sono uno che vuole raccontare delle storie. Il fatto poi che quelle storie siano state inserite in quel panorama ideologico in quel territorio, probabilmente dà loro quella forza che, probabilmente, al di fuori di quel contesto non avrebbero.


Ed è sempre stato così? 

Io non sapevo che questa cosa avrebbe funzionato, scrivevo solo per il piacere di scrivere. A volte queste storie sono uscite meglio di quanto io stesso pensassi di essere capace, visto che sono state apprezzate da così tante persone. Ma io questo non lo potevo prevedere. C’erano però delle cose che io volevo in modo molto consapevole: rendere chiaro il concetto della disillusione assoluta dell’oggi rispetto al tramonto ideologico imperante nel presente, rispetto al candore con il quale io affrontavo i valori e le ideologie dell’epoca. E quindi mettere assieme le due cose: la disillusione del presente e la potenza e il valore che sentivo per l’ideologia quando ero giovane.


Raccontami meglio

Ti faccio un esempio carino: nell’ 86 io mi sono diplomato con 60/60 all’Istituto per Geometri. Abitavo in un quartiere popolare, in una casa che mi madre aveva occupato. Penso che basti ascoltare “Austerità” per avere un’idea del contesto.
Essendomi diplomato con il massimo dei voti in un periodo di forte crescita economica, a casa mia cominciarono ad arrivare telefonate da parte di aziende che cercavano personale qualificato. Mia madre era entusiasta di questa cosa, e mi dava tutte le sere il “bollettino” con tutte le telefonate di quel giorno. Io ne ero profondamente infastidito, invece. Dedicavo le mie giornate al Partito, ed ero sinceramente convinto che sarebbe stato il Partito a prendersi carico dei miei bisogni successivamente. Io volevo il socialismo!


Quando é arrivata la delusione dal partito?

Poco dopo. Io ho trascorso dall’84 all’88 la mia vita dentro la federazione del PCI. Vivevo lì dentro. E questa cosa l’ho pagata,  perché dopo aver dedicato in maniera totale 4 anni della mia vita alla militanza assoluta, le delusioni che ho avuto dopo hanno fatto crollare tutto. Non ho avuto nessun dubbio ideologico: semplicemente la militanza, viscerale, assoluta e religiosa non ha più avuto lo stesso significato di prima. Ma era tutta colpa mia perché nessuno mi obbligava a passare la mia vita murato dietro le mura di palazzo Masdoni. Io mi ricordo Mimmo Frignani, segretario della federazione giovanile comunista nell’86-87, che un giorno mi disse “Collini ma non sarebbe meglio che tu andassi a casa e dessi magari qualche esame universitario? Non sei mica Lenin! Non sei tu che salverai il mondo (ride)”.


E tu come la prendevi sta cosa? Non ti faceva incazzare?

Sì,  mi faceva incazzare perché dentro me sapevo che aveva ragione. Semplicemente io mi ero costruito una bolla in cui erano tutti come me, la pensavano tutti come me tutti mi volevano bene e io volevo bene a tutti. Per cui avevo investito tutto lì, quella era tutta la mia vita, quindi é bastato poco per cui quel meccanismo saltasse. Peró ho costruito io la mia identità, il mio punto di vista, la mia lente per guardare il mondo, la mia cultura e i miei punti di riferimento e, a 30 anni di distanza, é ancora così. Nonostante ora sia adulto e non più un ventenne, nonostante il mondo sia cambiato completamente, quella formazione, quella passione, mi hanno dato gli strumenti  per interpretare il mondo dell’oggi in modo molto meno ideologico e molto più pragmatico. Ho molte meno illusioni e meno pretese, però quelli sono strumenti comunque importantissimi che mi hanno permesso di fare il mio percorso artistico e di “scrittore”.


C’è una frase tua che io ho fatto mia e spesso, forse troppo spesso, la uso come citazione. E’ tratta da “Elena e i Nirvana” ed è  “Solo lo stile ci salverà!”

E’ una frase che amo molto. Già in De Fonseca c’era un riferimento allo stile: “Bisogna avere stile anche nei momenti peggiori”, ricordi? E’ voluto il rimando. Ti sarai accorta che il mio stile è un po’ moralistico, c’è sempre una chiosa con un rimando morale a chiudere il racconto.


Ma perchè, la storia di “De Fonseca” è vera? Hai davvero mandato una ciabatta alla tua ex?

(ride)
Ma è sempre  tutto vero quello che scrivo!
E’ stata una bella storia d’amore. Ah, c’è un aneddoto assurdo attorno, senti la storia: Io la ciabatta l’ho spedita davvero dentro la sua bella busta gialla. Nel 2002, quando ancora gli Offlaga non esistevano, io ero a Nonantola per la data zero degli Oasis con Daniele,  che prima del concerto mi accompagnò fisicamente ad imbucarla. A quei tempi eravamo solo due che andavano ai concerti assieme. Pochi mesi dopo, nacquero gli ODP.


Lei come l’ha presa?

Lei bene, l’avrà vista come cosa poetica. Io ho bisogno dei miei tempi per il distacco dagli altri, e tendenzialmente cerco sempre di mantenere buoni rapporti.
Però è facile avere stile quando sei tu che prendi decisioni, è molto più difficile quando tutto di te porta all’incazzatura. Io ho avuto un’educazione sentimentale molto “violenta” all’inizio, e ho imparato tanto dagli errori fatti a vent’anni. Ho come un vademecum che mi ricorda come comportarmi nei disastri: penso che ogni azione successiva debba muovere dalla necessità di sforzarsi di non pensare mai solo al presente, al rancore, alle delusioni,  ma pensare che tutto ciò che fai oggi potrebbe avere delle ripercussioni sul tuo domani e potresti pentirti di quanto fatto, detto. Se mi guardo indietro sono poche le cose che non rifarei.


Mi aiuti a mettere in relazione Collini  Socialismo tascabile con Austerità e Servizio d’ordine?

Servizio d’ordine e Austerità di fatto sono un unico album e lo si capisce anche dalle copertine. Servizio d’ordine é praticamente figlio di Austerità. Nella loro realizzazione abbiamo fatto le cose un po’ diversamente rispetto a quello che si fa di solito. Di solito si fanno i concerti dopo aver inciso l’album per promuoverlo. Noi abbiamo usato i concerti per testare il nostro pubblico e cercare di capire se ci fosse abbastanza interesse per noi e per il nostro materiale. Una volta registrato l’album abbiamo deciso in maniera piuttosto radicale di non mettere dentro soltanto i brani del tour ma anche materiale nuovo.  Così nasce Servizio D’ordine, costola, completamento, di Austerità. Dopo 120 concerti in giro per l’Italia, 4 anni di lavoro con Jukka, il tour Servizio D’Ordine ha consolidato il rapporto col pubblico dando concretezza a tutto il percorso fatto, e lo testimoniano le 1000 copie dell’EP. Roba mica facile per un EP che, si sa, solitamente mica vendono un granchè! Adesso stiamo pensando al futuro: ci fermiamo, decantiamo ed immaginiamo il prossimo album.


Ma siamo a  13 anni da Socialismo Tascabile, che poi è il mio preferito.

E’ quasi sempre IL preferito, sono molto legato, ha completamente cambiato il mio modo di vivere. Socialismo Tascabile è, mi piace dire, il momento in cui ho iniziato a realizzare i sogni di qualcun’altro: nel senso, io non avevo ambizioni artistiche. Album, tour, dischi, pubblico appassionato a ciò che faccio. Non ho mai cercato questa cosa, è arrivata a me che non la cercavo e chissà a quanti che l’aspettavano invece non è arrivata. ST è nato ad una velocità incredibile:  alle prime prove a gennaio 2003 ai primi concerti nella stessa primavera/estate, per un totale di 8 date, nel 2004 una decina e a due anni esatti dal primo concerto, disco nei negozi. A quei tempi impiegavi almeno dieci anni a fare il nostro percorso. Una velocità folle.
Il punto è che noi ai tempi trovammo un’attenzione per le cose che facevamo che noi stessi non ci aspettavamo. Ti racconto com’è andata: noi ci siamo iscritti all’ultimo secondo a Rock Contest. All’ultimo minuto abbiamo mandato ‘sta busta con un demo orripilante dentro. Dopo due giorni ci chiamarono per dirci che ci avrebbero preso solo per la busta con cui confezionammo il demo (ride). C’era una roba di Enrico con tre omini del subbuteo, noi tre, con tutta una serie di slogan e robe varie con un linguaggio un po’ strano, considera che tutto l’indie era inglese ai tempi, e questo modo di presentarci ancor prima di ascoltarci li avevano già convinti che fossimo interessanti. Così ci invitano a presentarci alla FLOG di Firenze. Per noi era già carriera! Alla Flog abbiamo vinto la prima, la seconda e la terza serata abbiamo suonato davanti a 1200 persone di cui degli ODP verosimilmente importava poco. Il punto è che vincemmo anche la terza data, e in finale in giuria c’era un parterre piuttosto importante ed entusiasta: ci proposero di registrare il disco che uscì l’anno dopo nei negozi.


Ma tu a che pensi quando ti ritrovi questo disco tra le mani? Come lo metti in relazione al tuo presente? Cosa provi?

In realtà non lo ascolto quasi più. Ho un problema con quell’album: io vedo Enrico e Daniele molto sul pezzo e molto consapevoli, loro suonavano già da molto, avevano dimestichezza, come musicisti avevano una percezione esatta di ciò che facevano. Li mi sento un po’ parvenu…


E ti imbarazza? 

Se ascolto Socialismo Tascabile e Gioco di Società, sento una enorme differenza in termini di espressività della voce e padronanza dello strumento. 400 concerti dopo e due dischi in più, avverto una profondità ed interpretazione diversa, migliore, laddove in Socialismo tascabile insiste una maggiore ingenuità.


Ma secondo me la senti solo tu.

Sì, lo so. So che è una cosa mia e chi ascolta il disco di sta roba non gliene fotte un cazzo, perchè sente così suo il testo di quei brani che non gli importa. Se avessi oggi modo di registrare nuovamente questo disco, l’espressività della voce sarebbe nettamente superiore. Ma so che questa cosa potenzialmente interessa solo me.


Secondo me in ST la forza era proprio quella.

Si, forse. Ai tempi ST divenne quasi il linguaggio dei blog, era un citazionismo continuo. Un linguaggio nuovo dentro la musica indie italiana. Senza consapevolezza. E’ un disco amatissimo, ancora oggi lo si compra. Rolling Stone nel 2011 fece una classifica dei 100 dischi più importanti della musica italiana, tutta la musica ah. ST arrivò al 23esimo posto. La percezione che comunque vada, tu qualcosa l’hai lasciata.


Ed è bello, no?

Eh beh! (ride)
Cosa stiamo a fare al mondo se non per lasciare un segno?

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