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Dark: Round the edges, ovvero la storia di un oblio immeritato

By maggio 2, 2018 No Comments

Rendersi conto che non c’è niente di nuovo sotto il sole fa necessariamente sbuffare, ma in musica una regola simile diventa, talvolta, vero metro di giudizio per stabilire l’originalità di un disco o anche solo di una canzone, un’idea, o di un semplice ritornello generato in un determinato momento storico. Nei decenni, episodi isolati di meteore musicali immediate e illuminate di torrenziale intensità, ma limitatissime nella produzione di opere, se ne trovano. Può arrivare, all’improvviso, una storia come tante, a cui si lega un talento artistico mastodontico, che però sfuma in un insensato oblio nell’immediato futuro. Cambiano le ambizioni e i progetti di quella realtà musicale, ma quello che ne è venuto fuori, anche un unico album, per quanto debba considerarsi via maestra per le future generazioni, può essere dimenticato. Questa è la storia di un disco, Round the edges, creato nel 1972 dai Dark, band originaria di Northampton, la città inglese che darà i natali nel 1978 ai Bauhaus, ma in quest’ultimo caso si parla di post-punk, un futuro troppo lontano per questa storia. I Dark nascono a 107 km da Londra, subiscono l’influenza del terremoto culturale di quel tempo, ne sono incantati, vengono lanciati nel vortice. Steve Giles, accanto alla passione per la fotografia, affina la propria passione per la musica, è chitarrista e coltiva un progetto musicale che incontrerà il talento di Clive Thorneycroft, batterista, nonché Ronald Johnson al basso e, come secondo chitarrista, Martin Weaver.

Tutti loro si conoscono nei giorni di scuola, ma il loro sodalizio, seppur frammentario, creerà una pagina musicale determinante per gli anni a venire. Dal 1968 in poi, la band suonerà inizialmente dal vivo, nasceranno canzoni, ne verrà fuori un viaggio a intermittenze blues e progressive, con raffinati contorni di psichedelia e hard-rock. In quel periodo, a disegnare una nuova coscienza artistica erano capolavori come The Piper at the Gates of Down, esordio allucinato dei Pink Floyd o The Velvet Underground & Nico, progetti e messaggi che stabilivano come dovesse essere il futuro. Ricordarsi del periodo storico è essenziale, perché quello che i Dark produrranno in ogni brano di Round the edges deve intendersi come puro orizzonte artistico, cioè non un esercizio di stile, ma una vera mappatura musicale che scansiona un periodo della Storia fondamentale anche, indiscutibilmente, nella musica. Dopo aver sperimentato la dimensione live, arriva finalmente, in seguito al definitivo consolidamento della band, il momento di realizzare qualcosa di concreto. Ma non subito in studio. Si chiudono in un casolare e iniziano a creare, arrangiare, scrivere il materiale ufficiale. Da quella condizione, si genererà un disco che assume i toni di una jam session, forse per le contaminazioni del contesto, la mancanza di pressione da parte di tecnici e fonici, la mancanza di occhi addosso, ma soltanto corde e percussioni. Un momento di assoluta isolata libertà, che si percepisce anche dall’ascolto dell’album, dove, a tratti, gli assoli sembrano improvvisati più che studiati a tavolino. Tuttavia, ufficialmente, tra il 9 e il 13 luglio del 1972, il disco verrà registrato presso i SIS Studios di Northampton e, secondo quanto dichiarato in un’intervista da Steve Giles, esso avrebbe dovuto chiamarsi Dark round the edges, ma non fu così.

L’opera porterà il titolo di Round the edges e plasmerà una vera e propria rivoluzione. Da questo lavoro, questa volontà, da un’idea ambiziosa di musica mai impiantata in un unico discorso melodico, nascerà un disco di rara grandezza, perfetta sfumatura tra progressive e psych-rock. C’è chi parla di proto-prog, quasi a voler insignire la band inglese della qualifica di precursori di un genere, dove c’entra anche e soprattutto lo psych-rock, la psichedelica vorticosa, ma anche lo stoner rock primordiale, tracciato attraverso una sequenza di effetti e scale che superano il suono in sé e diventano atlante musicale foriero di nuovi generi e prospettive. Non lo si può negare. Questo disco non si trova nelle classifiche dell’epoca, ma avrebbe meritato ben altra evoluzione, perché non è presente nelle grandi classifiche degli anni ’70, non se ne parla, si citano sempre i nomi grossi, ma non loro. L’album nacque quasi come un regalo personale che si sono voluti concedere Giles e soci. Le copie furono al limite del pensabile, appena una sessantina, alcune delle quali riservate a fidanzate e amici della band e contenenti foto e materiale inedito scritto sulla storia e l’evoluzione dei Dark. Tuttavia, negli anni a venire, il disco verrà ristampato.

La struttura dell’album è suggestiva, quasi un flusso di coscienza ragionata, si estende per quasi sessanta minuti, ma è diviso in sei tracce. Ecco la prospettiva primordiale del prog-rock, ma anche del blues contaminato dalle distorsioni, dai brani articolati in sessioni strumentali necessariamente prolisse, mai noiose, dalle sfumature peculiari e controllate. Ricordare che, tutt’oggi, non si parla di un disco simile è rilevante e deludente, perché sin dai primi impulsi del brano di apertura, Darkside, da considerarsi la title-track, si percepisce una luce sonora di nuova realtà. La voce di Giles, pulita e diretta, non giunge immediatamente. Il brano dura più di sette minuti, ma la voce arriva dopo i primi sessanta secondi, perché prima si dà spazio al suono, alla combinazione materiale degli accordi. L’inizio è un brivido, a partire dai primi colpi di batteria, un’esecuzione vorticosa. Si lascia molta strada agli stacchi strumentali, sembrano essere una parte immancabile, proprio per la densità che se ne percepisce nell’elaborazione del brano. Ma, indubbiamente, verso l’ultima parte di questo primo pezzo, arrivano le distorsioni, le note più tecniche, gli intermezzi che ricordano, a tratti, l’universo dei King Crimson. Ma è Maypole a diffondere quel senso di versatilità che i Dark regalano pienamente. Le note scorrono in una dimensione melodica alternante, in cui gli stacchi sembrano più ragionati, si intravede un percorso dove si contrappone davvero quell’intuizione sonora che sfocia nella psichedelia più pura. Gli effetti utilizzati da Giles, le distorsioni, portano al cuore del disco. In questa stessa direzione, arriva Live for today, perfetta evoluzione graduale, cioè la canzone giusta nel posto giusto, maggiormente orecchiabile.

La tracklist è impagabile, non presenta eccessi o forzature, trasporta con grazia l’ascolto nel corso dei brani, dei testi e dell’inventiva. R.C.8. riporta, invece, a quell’iniziale commistione di generi, dove l’esplosione del prog-rock è più una necessità che un ripiego, un talento personale che i Dark non abbandonano mai. The cat sembra la conclusione logica del discorso iniziato con R.C.8., trascinante nella composizione, così come la voce di Giles, ormai in simbiosi con questo spettacolo musicale a più dimensioni. Zero time, a concludere questa perfezione, regala quel tratto sperimentale sinuoso che consolida il lavoro della band inglese. La sfera dell’hard-rock sembra essere una promessa, viene tracciata con questo brano che chiude il disco, si lascia spazio a tante idee e quasi non si contano più. Ci saranno altre opere dei Dark, brani composti in quel periodo e inseriti in altri album. Ma non si parla di questo. Ciò che colpisce è davvero non considerare Round the edges come descrizione di un tempo, parte essenziale di quel processo artistico in cui la musica si è elevata a metro di giudizio del talento che sovrasta e che precorre i tempi, come deve essere. Alcune storie non si spiegano, se ne compongono i dettagli, ma si può solo rimanere sorpresi. Questo disco ha raggiunto la fama fra i collezionisti, nei mercati musicali, fra i feticisti, ma non negli ambienti musicali ufficiali. Oggi, ad ascoltarlo, si può respirare l’aria di quel passato, il senso di novità e scoperta che spalancava le porte di un futuro soltanto, in quel momento, suonato e immaginato.

Quasi come un manifesto musicale, questo disco, ascolto dopo ascolto, sembra impiantarsi nella memoria come un colosso: viene alla mente la stessa narrativa melodica diretta e potente di Marquee moon, in chiave prog e psych, come uno specchio dell’epoca. Difficile accettare che il suo successo sia maggiormente percepibile nella dimensione commerciale, quasi come il titolo di nicchia che non conosce nessuno, se non due o tre persone del settore. Questo disco avrebbe dovuto godere di un differente avvenire, se si riflette sul fatto che parecchia musica di questo millennio si ispira inequivocabilmente a quelle altezze. In qualche modo, questo gruppo di musicisti di Northampton, senza neanche accorgersene, ha realizzato uno dei preamboli dello stoner rock, assemblando percorsi sonori che si riveleranno terreno fertile per la musica degli anni ’90 e non solo. I Dark scolpiscono quel tempo, quel carisma versatile, mai appagato, tanto da confermare che la musica ha detto parecchio sinora, perché sotto il sole di allora c’era tanto di nuovo, ma oggi ricordarlo a dovere sembra quasi irrilevante.

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