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“La voce del padrone”: quando Battiato alzò bandiera bianca contro la musica impegnata

Era il 1981 quando un capelluto in calzettoni, cravatta e occhiali da sole, seduto di profilo – accentuando così i suoi lineamenti bizantini – su uno sfondo di palme che allude al mondo mediterraneo stravolse la scena musicale italiana e, in qualche modo, anche la società. Sì perché oggi viviamo in un mondo che ci inonda di simboli, immagini e citazioni; un mondo globalizzato a tutti gli effetti in cui è naturale mescolare inglese ed italiano, sgradevole ed incantevole, creando così un’accozzaglia di segni – si pensi al mondo dei meme – che non permette alcun tipo di separazione: un mondo, insomma, in cui non esiste arte popolare e arte elitaria, ma solo opere belle e opere brutte. Ma qualche decennio fa chi si sarebbe mai immaginato di ballare sulle parole di Theodor Adorno o su una poesia di Fusinato (come il famoso ritornello “sul ponte sventola bandiera bianca”)?

Probabilmente nessuno. In quegli anni l’Italia cantava e ballava Gloria di Umberto Tozzi o Anima Mia dei Cugini di Campagna, e pensare di citare persino il proemio dell’Iliade su una base pop era come bere il latte col limone: un’assurdità.

Tuttavia in questo contesto così radicato irrompe l’eccentrico cantautore etneo, che attraverso la sua voce pacata ma tagliente, ha rovesciato il mondo delle regole e delle parole. La voce del padrone rappresenta infatti l’apice della sua sperimentazione, iniziata nel ’72 con Fetus – il suo primo 33 giri conosciuto per la singolare copertina su cui è stampata la foto di un feto – Pollution, un album che vira sul progressive rock, fino a L’Egitto prima delle sabbie, album che pone fine ai lavori di radice elettro-sperimentale per sterzare sul pop con L’era del cinghiale bianco, Patriots e La voce del padrone, il primo long playing più famoso e tra i migliori di sempre della musica italiana.

La sua particolarità principale è data dalla presenza di numerosi strumenti molto diversi fra loro – vibrafono, organo, archi e sintetizzatore sono solo alcuni mezzi che il nostro cantautore utilizza in modo orchestrale, creando così sonorità eleganti e raffinate capaci di mescolare punk-rock e new wave. Una commistione azzardata ma vincente che consente a Battiato – relegato fino a quel momento all’underground – di accaparrarsi il titolo di re della classifica. Il disco infatti tocca una punta di popolarità che in futuro non sarà mai più raggiunta – fatta eccezione per La Cura, che riporta il cantautore tra le braccia del grande pubblico – vendendo un milione di copie in Italia e rimanendo al primo posto in classifica per diciotto settimane non consecutive.

Si comincia con l’ascolto di Summer On A Solitary Beach, chiaro riferimento alle canzoni balneari ma con un ritmo essenziale arricchito dal sax di Claudio Pascoli, per passare poi a Bandiera Bianca – il brano più noto dell’album insieme a Cuccurucucù e Centro di gravità permanente – in cui è possibile ascoltare e assaporare tutta la filosofia del disco basata su una critica alla comunicazione televisiva e politica; un brano in cui Battiato non risparmia nessuno, proprio come l’Avvelenata di Guccini che uscirà cinque anni dopo.

Dal brano accusatorio il cantautore si dirige verso l’alto raggiungendo Gli Uccelli, poesia sognante e nostalgica per poi cadere, di nuovo, nel pop nel suo significato più puro con Cuccuruccucù, brano citazionistico in cui convivono Le mille bolle blu di Mina, Lady Madonna, With a Little Help from My Friends dei Beatles e Like a Rolling Stone di Bob Dylan.

Gli ultimi tre brani – Segnali di Vita, Centro di Gravità permanente e Sentimiento Nuevo – proseguono su questa scia, fatta di sterzate pop e odi sincere ed eleganti.

Ancora oggi è difficile comprendere come Battiato sia riuscito a passare dalle copertine con i feti a rivoluzione musicale ante litteram, ma una cosa è certa: in un mondo confuso e megalomane in cui anche il più superficiale autore di canzonette assurge a titolo di “fenomeno senza eguali” o enfant prodige, il titolo di Maestro affibbiato a Battiato è l’epiteto più azzeccato di sempre.

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