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Grazie dei fiori. Ma anche no

By febbraio 10, 2020 No Comments

È ormai certo che l’Italia è diventata un paese bipolare. Non mi riferisco solo al suo assetto politico istituzionale, ma ad una più generalizzata esigenza di dividersi ad ogni costo in fazioni contrapposte sulle tematiche più varie.

Unasorta di ancestrale desiderio di competizione che riesce a trovare sfogo negli ambiti più impensabili. Ogni anno, nel mese di febbraio, questa voglia matta di schizofrenico dualismo raggiunge una delle sue massime espressioni in occasione della competizione canora meglio nota come Festival di Sanremo.

Sono giorni di aspro confronto tra chi afferma eroicamente di seguire la cinque giorni canora e chi, orgogliosamente, sostiene di non vederla, di non averla mai vista e che mai la vedrà.

Ciò che risulta di particolare interesse, sono le motivazioni alla base dei due schieramenti.

Da una parte gli aficionados sostengono che da lì  è passata la storia della musica italiana e che in fin dei conti “c’è sempre qualcosa da prendere”.

Dall’altra, i detrattori non ritengono che il palco dell’Ariston rappresenti la realtà musicale italiana, ma sia solo una proiezione di quella parte di popolino ormai abituato a fischiettare melodie di facile presa radiofonica.

La verità, come sempre, sta nel mezzo.

Sanremo è lo specchio del paese? In parte si. È inconfutabile come gli ultimi anni abbiano registrato una tendenza ad allargare lo spettro dell’offerta musicale in gara, andando oltre l’impostazione classica da canzone sanremese strofa/ritornello/strofa, aprendosi ad arrangiamenti e testi più ricercati e dando più spazio a ritmiche in quattro quarti che fino a poco tempo fa venivano sacrificate sull’altare della rima cuore/amore.

Ci sarebbe semmai da chiedersi se questa inversione di tendenza verso la musica “giovane” non sia stata voluta anche da quella fetta di scena musicale definita, ormai infelicemente, “indie”.

Agliocchi (e alle orecchie) di chi vi scrive, appare chiaro come quella parte dell’industria musicale fino a qualche tempo fa fieramente lontana dagli stereotipi sanremesi abbia preso coscienza della assenza di una linea di demarcazione netta, così come anacronistico risulti il concetto di indipendente.

L’offerta deve incontrare la domanda e a giovarne è sempre il pubblico. Spazio, quindi, a sonorità trap, alla più alta percentuale di pezzi rap/hip hop che il Festival abbia mai registrato, al pop più spensierato.

Mentre scriviamo, apprendiamo con positività che a vincere è la canzone di Diodato, esempio perfetto di equilibrio tra scrittura nuova, non banale e aperture melodiche di ampio respiro che a Sanremo hanno sempre avuto fortuna. Faremmo invece a meno di coup de theatre che vorrebbero stupire, ma che risultano solo macchiettistici, e di altrettante uscite di scena teatrali non in copione.

Preferiamo soffermarci sulla musica e sobbalzare nel sentire “tu sei l’unica messa a cui io sono andata” dalla splendida voce di Tosca, tra gli episodi più felici e convincenti, o sull’articolata e potente “Eden” di Rancore, protagonista a nostra avviso del duetto più riuscito insieme a Dardust e a La Rappresentante di Lista. Note e parole, dovremmo tornare a concentrarci su questo. Sulla potenza unica che può scaturire da una frase e da una melodia. A Sanremo, al MiAMI, in una festa di piazza in paese. Che poi, in fondo, parafrasando Vasco Rossi, ma cosa volete che sia una canzone.

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