Onore e merito John Mayall. Ma anche grande comprensione e ammirazione.
Pensate come deve essere stato frustrante, riuscire a raggruppare un gruppo di musicisti che potesse suonare la sua musica, e poi – come un castello di sabbia distrutto da un’onda birichina che è andata oltre il segno del bagnasciuga – essere costretto ogni volta a ripartire da zero.
Se elenchiamo alcuni nomi di musicisti passati dalla sua band, capirete meglio cosa intendo.
Keef Hartley, Mick Fleetwood, John McVie, Aynsley Dunbar, tutti che hanno preso la propria strada, lasciando al buon Mayall il compito di doverli rimpiazzare.
Per non parlare del doloroso capitolo dei chitarristi: Eric Clapton, Peter Green, Mick Taylor. Parliamo cioè, dei Cream, dei Fleetwood Mac e dei Rolling Stones. Nomi che dicono tutto senza ulteriori spiegazioni.
Più che un uomo, Mayall è stato un santo. Sua santità del blues britannico.
Questa storia di arrivi improvvisi e altrettanto improvvisi abbandoni si verificò anche nel caso dell’inquieto Eric Clapton in fuga dagli Yardbirds, che dopo il singolo For Your Love, secondo la sua visione integralista, erano ormai dediti al successo commerciale. Alla ricerca di un lido dove purificare la sua musica, Slow Hand suonò con Mayall giusto il tempo per incidere nel 1966 un unico disco Blues Breakers With Eric Clapton, The Beano Album, come viene chiamato dall’albo a fumetti che Clapton sta leggendo mentre ignora beatamente il fotografo.
Ben presto, il chitarrista si guarda intorno, c’è la possibilità di un progetto con Jack Bruce e Ginger Baker e – alla faccia dei buoni propositi che lo avevano portato ad abbandonare il vecchio gruppo – c’è anche la possibilità di fare tanti soldi. In più, quasi all’improvviso, decide di piantare John Mayall e la band e andare in crociera nel Mediterraneo.
Il rimpiazzo scelto è Peter Green, londinese di famiglia ebrea, che fino a quel momento aveva militato in piccoli gruppi e che si poneva come un illustre sconosciuto, rispetto alla leggenda che stava andando a sostituire.
Ancora oggi, qualche mente balzana annovera Peter Green in un’ipotetica seconda fascia di chitarristi, rispetto al nominato Clapton, Jimmy Page e Jeff Beck, ma vi avviso che state prendendo una cantonata tale da farvi arrivare in Cornovaglia.
È solo una questione di pubblicità. E destino, aggiungo io.
Infatti, se al ritorno dalla tournée americana dei Fleetwood Mac del 1970 il buon Peter non fosse uscito di testa causa un pantagruelico uso di sostanze psicotrope che, unito a una sua particolare inclinazione al misticismo, lo ha portato a fare quattro passi nello spazio, alla pari di gente come Syd Barrett o Skip Spence (per non parlare dei tanti altri persi nei loro viaggi senza ritorno alla ricerca di una propria consapevolezza farmacologica) avrebbe avuto tutti i presupposti per diventare uno dei nomi punta del rock degli anni futuri.
Ma andiamo con ordine.
L’idea primaria di Mayall è di sostituire Clapton, allora in vacanza, sperando che al ritorno si possa riunire alla band. Ma come la storia dimostra, il chitarrista saluta tutti e crea i Cream, così l’ingresso di Green nei Blues Breakers diventa in pianta stabile.
Il primo e unico frutto del sodalizio con John Mayall è il disco del 1967, A Hard Road, sempre a nome di John Mayall & The Bluesbreakers.
Rispetto al disco con Clapton è il suono a fare la differenza. La chitarra di Green decora e corteggia proprio come Slow Hand non è riuscito a fare. Green non si limita a ripetere il riff, i fraseggi, le battute, ma riesce a dargli anche un suo tocco personale. I suoi assolo sembrano quasi arrivare dall’oscurità, il sustain della sua Gibson illumina stanze vuote, mentre va alla ricerca – la novità rispetto a Eric Clapton – di una linea melodica, netta, pulita, memore della lezione di Hank Marvin dei The Shadows, uno dei suoi idoli giovanili.
Ascoltate, ad esempio Supernatural, composizione dello stesso Green che sicuramente Santana ha studiato a memoria, per rendervi conto di come ogni singola nota della chitarra di Peter Green è in un certo senso definitiva e perfetta come la scia di una cometa che rischiara il cielo di una notte di primavera. Oppure se ancora non siete convinti, The Stumble, altro pezzo forte del repertorio: mai come in questo caso il termine funambolico non è apparso fuori luogo.
A parere di chi scrive, il meglio Green lo lascia in un singolo contenuto nella raccolta Thru The Years, che si intitola Out Of Reach, dove appunto il contrasto fra oscurità e luce è più evidente. Bastano poche note e una voce ispirata, il nostro è anche un discreto cantante, a creare la magia che rende il pezzo perfetto. Il risultato è un brano che ormai ha più di quaranta anni ma che non ha mai perso un briciolo di intensità e di attualità, tanto da sembrare essere stato inciso appena ieri.
A questo punto, come ormai la storia di John Mayall dimostra, arriva il solito colpo di scena.
Green decide di andare per la sua strada e abbandona il gruppo. Secondo la versione ufficiale, non si sentiva più inserito nel progetto di Mayall che stava spostando il baricentro della sua musica verso la contaminazione con il Jazz o con la musica della West Coast, come dimostrano i suoi lavori successivi, allontanandosi invece dalla rigidità e dall’integrità del blues così come lo intendeva Green, ammiratore del chitarrista Freddie King, del cui stile si possono riconoscere le influenze oltre a quella del già citato Marvin.
Molto più probabilmente, Green si rende conto di poter andare in giro sulle proprie gambe ed è per questo motivo che si tira dietro altri due transfughi del gruppo di John Mayall, cioè John McVie al basso e Mick Fleetwood alla batteria. La nuova band, però prenderà il nome dai due sodali e non da Green che, cavallerescamente, farà un passo indietro. Nascono quindi i Fleetwood Mac, ancora lontani da essere quel gruppo che abbiamo imparato a conoscere alla fine degli anni Settanta per una musica da classifica elegante e levigata, distante ere geologiche da quella suonata con Green in formazione.
I tre decidono di firmare un contratto con la piccola casa discografica Blue Horizon e iniziano subito a fare qualche concerto. Green non è però ancora soddisfatto: ha bisogno di trovare un altro chitarrista, qualcuno che gli possa coprire le spalle. La scelta cade su un bassetto di nome Jeremy Spencer, abile a introdurre felici variazioni con la sua chitarra slide e la sua attitudine al rock and roll nella monolitica certezza blues della band.
Fin dalla loro prima uscita discografica dal titolo omonimo, nel 1968, il gruppo o meglio, diciamo pure Peter Green, si pone su una linea talebana e oltranzista. Mentre attorno a loro, i dischi cominciano a odorare di aromi orientali, oppure sono influenzati dalla musica classica o saturi di elettricità statica – i Moody Blues con Night in White Satin, sbancano con la loro felice miscela di pop e intuizioni sinfoniche – come dei piccoli soldati giapponesi nascosti nella giungla, ignari che la guerra è già terminata da anni, Green e compagni restano fedeli al loro primo amore, offrendo poche variazioni alla ricetta base. Merry-Go-Round, Shake Your Moneymaker o I Loved Another Woman sono i pezzi pregiati della casa. Solide dodici battute, una sezione ritmica precisa a tal punto che potrebbe fare gli orologiai e le due chitarre che si sovrappongono mentre Green canta e si diverte.
Dopo pochi mesi sempre nel 1968 esce il secondo disco, il gemello Mr Wonderful.
È interessante notare, come la catena degli eventi fino a quel momento, viaggi a una velocità davvero incredibile. È passato poco più di un anno da quando Green è entrato nella band di Mayall, meno di dodici mesi dall’uscita di A Hard Road e ha già ha inciso due dischi in un gruppo di cui è leader .
Mr Wonderful non si dimostra tanto diverso dal primo, eppure qualcosa non va, nonostante Green e il suo tocco siano facilmente riconoscibili. Stop Messin’ Round, Love That Burns, Trying So Hard To Forget sono marchi di fabbrica , cantati col suo indistinguibile timbro British, ma ormai i gusti del pubblico si stanno dirigendo verso nuove proposte.
La Summer of Love è appena trascorsa e la psichedelia ha lasciato una macchia colorata e chiassosa che investe anche il mondo della musica. Le canzoni blues dei Fleetwood Mac appaiono come dei film in bianco e nero rispetto all’esplosione in Technicolor della musica delle altre band dello stesso periodo, si pensi per esempio a Disraeli Gears dei Cream, alla rivoluzione di Jimi Hendrix che nel 1968 inciderà quella pietra angolare che è Electric Ladyland, con le sue contaminazioni cosmiche, oppure della svolta che stavano prendendo gruppi storici come i Rolling Stones o gli Yardbirds, a breve Led Zeppelin, che si stavano distaccando dai sentieri tradizionali per intraprendere nuove strade sconosciute.
Un po’ di respiro al gruppo lo danno i singoli, in particolare due.
Black Magic Woman è il primo. Santana lo farà suo in un’infuocata versione al sapore latino, ma anche quella di Green non è da meno, con la chitarra e la sezione ritmica che danno al pezzo un andamento esotico e misterioso. L’altro singolo è intitolato Albatross, uno strumentale che si sviluppa attraverso un liquido assolo di chitarra, nato dai numerosi ascolti giovanili di Green di un successo degli anni cinquanta. Stiamo parlando di Sleep Walk dei fratelli italoamericani Santo & Johnny Farina, pezzo del 1959.
Nel frattempo però i suoi Mac si sono allargati: da una formazione a quattro sono passati a cinque con l’aggiunta di un altro chitarrista, il giovanissimo Danny Kirwan il quale fin dall’inizio sarà in piena sintonia con Green. Infatti, proprio i due pezzi di cui abbiamo parlato saranno incisi senza Spencer ma con il nuovo arrivato che oltre a dimostrarsi un ottimo chitarrista è anche compositore e buon cantante, alleggerendo i compiti di Green durante i concerti e permettendogli di concentrarsi meglio sulla chitarra solista.
La discreta popolarità raggiunta grazie ai due singoli porta la loro casa discografica a organizzare una session di registrazione con alcuni mostri sacri proprio della Chess Records. Ne uscirà fuori un disco, Blues Jam in Chicago, uscito con un primo volume nel 1969 e poi successivamente con un secondo nel 1970, dove i Fleetwood Mac insieme a gente del calibro di Buddy Guy, Otis Spann, Willie Dixon si misurano nella rivisitazione di alcuni standard.
Mai come in questa occasione Green si dimostra padrone della tecnica, i suoi fraseggi sono eleganti, nessuna nota viene sprecata. I Held My Baby Last Night o Black Jack Blues, lo testimoniano senza alcuno timore di smentita. Anzi forse proprio il fatto di trovarsi alla presenza di alcuni suoi idoli, gli permette di non sfigurare, come invece era accaduto a molti suoi colleghi, intimiditi dal confronto con queste autentiche leggende.
E lo dimostra anche il fatto che Otis Spann, famoso pianista della Muddy Waters Band, deciderà di arruolare tutto il gruppo per incidere un proprio disco Biggest Thing Since Colossus, sempre inciso per la Blue Horizon.
Nonostante gli apprezzamenti ricevuti negli Stati Uniti, però il gruppo decide ugualmente di lasciare la vecchia casa discografica e cercare una nuova etichetta che riesca a valorizzare il potenziale che sa di poter esprimere.
Il primo tentativo è fatto per un singolo, Man of the World inciso per la Immediate Records di Andrew Loog Oldham ex manager dei Rolling Stones, che avrà però triste epilogo in quanto le l’etichetta fallirà poco tempo dopo. Tornando sul brano – una ballad meditabonda sulla solitudine- possiamo dire che si tratta dell’apice del songwriting di Green, che intanto sembra avere intrapreso una propria ricerca spirituale.
Il gruppo firmerà per la Reprise Records e tutto a questo punto sembra pronto per raggiungere il successo meritato. Quando nel 1970 è pubblicato il nuovo disco del gruppo, Then Play On, a tutti è chiaro che dei vecchi Fleetwood Mac è rimasto ben poco.
Non c’è più l’ostinato attaccamento al blues, brevi brani costruiti con meccanismi semplici ma sempre ingioiellati e impreziositi dagli assolo di Green. Al contrario ci troviamo di fronte a una band che potrebbe fare concorrenza ai Led Zeppelin oppure al Jeff Beck Group .
La varietà della nuova proposta musicale è testimoniata da magnifiche cavalcate come Rattlesnake Shake oppure la cupa Coming Your Way di Kirwan, in cui il fronte comune delle tre chitarre offre una linea di fuoco difficilmente superabile da altri gruppi del periodo. Ma sono gli episodi più lontani dal passato, come la lunga Oh Well, di quasi dieci minuti, o la sognante Although The Sun Is Shining che mostrano una versatilità e sensibilità fino a quel momento sconosciute.
Poi ci sono i concerti, sono quelli dare il segno più evidente del cambiamento che il gruppo ha raggiunto.
Come documentato dalle registrazioni dei concerti di Boston del febbraio del 1970, i Fleetwood sono ormai un’altra cosa rispetto alla blues band del passato. La chitarra di Green non suona più come prima, la lezione del blues è sempre presente, certo non si può dimenticare, ma allo stesso tempo quello che ci troviamo di fronte, sono delle lunghe jam session, che dilatano i brani del disco a oltre venti minuti.
Parlavo del destino.
C’è chi dice che la colpa sia stata dall’abuso di cocaina e di LSD che Green fece durante proprio questa tournée americana, introdotto negli ambienti giusti da parte di Jerry Garcia dei Grateful Dead, altri pensano che in ogni caso ci fosse una fragilità mentale di base alla quale il successo e qualche pillola di troppo abbiano dato il colpo di grazia.
Poco importa, il risultato è che il Green che ritorno in Inghilterra è un lontano parente di quello che l’ha lasciata poco tempo prima. Va in giro vestito in modo trasandato, una lunga barba e una croce al collo, parla di povertà e predica contro il denaro, il male di questo mondo.
Ogni tanto attraversa fasi di isolamento afasico, tanto simili a quelle di Syd Barrett, per citare un nome altrettanto famoso.
Così è quasi scontato che non faccia scalpore, il suo annuncio di lasciare i Fleetwood Mac e di voler dedicarsi a una propria ricerca interiore, abbandonando l’ambiente musicale.
The Great Manalishi (With The Two Prong Crown), il bruciante singolo che è anche il suo addio alla band, è un attacco al Dio Denaro ma sul piano musicale è, anche se mai fosse necessario dimostrarlo, un’ulteriore prova di bravura del chitarrista che abbandona il fioretto per impugnare una scure e dedicarsi a demolire a colpi di riff e di pennate furibonde le orecchie dei malcapitati ascoltatori. Un brano con un killer instinct degno del Jimmy Page più scafato.
Green vorrebbe lasciare tutto, ma la Reprise chiede da contratto ancora un altro disco. Dopo quello sarà finalmente libero.
Così d’impulso, dopo aver raccolto un pugno di amici fra i quali il tastierista Zoot Money, si chiude in studio per registrare quello che sarà il suo momentaneo canto del cigno.
Tre quarti d’ora scarsi di musica senza alcun filo conduttore, solo improvvisazioni di chitarra e il gruppo che gli sta dietro. Intitolato, per essere chiari, The End of the Game, il disco si dilata in un prolungato flusso di coscienza sonora senza un inizio e una fine definita, quasi fosse un filmato che immortala Green in qualcosa che potrebbe essere definita estasi mistica.
La musica è molto più vicina a Miles Davis di Bitches Brew piuttosto che a tutto quello che ha fatto in precedenza. L’unica costante è la sua chitarra, il suo tocco, la sua ricerca di nuove sonorità. C’è chi racconta come si fosse recato a Monaco e avesse suonato una jam session durata quasi un giorno con alcuni musicisti locali solo alla ricerca della nota giusta.
Ed è proprio questo, forse il termine più adatto, se si vuole semplificare la musica di The End of the Game. La ricerca della nota giusta.
A Green non interessa compiacere al pubblico, c’è qualcosa dentro la sua testa che lo chiama ma che allo stesso tempo che non riesce a raggiungere. Non cercate un filo conduttore attraverso i brani che si succedono, sono semplicemente evoluzioni che ci portano una dimensione diversa.
Potremmo definirla onirica se non fosse un termine così abusato Ma di sicuro si tratta di un sogno, un sogno dal quale si viene strappati nell’ultimo brano quando una mano toglie la puntina dal solco e la musica si interrompe bruscamente.
Tutto quello che sarà dopo, compreso un ricovero in manicomio o altre tristi vicissitudini, è ancora di lì a venire. E anche se la carriera di Peter Green è intervallata da momentanei ritorni (le brutte abitudini, si sa, sono le più dure da smettere) nulla di quello che riuscirà a pubblicare negli anni seguenti, potrà essere in grado di raggiungere lo splendore di quei tre quarti d’ora di musica, che seppure per un breve istante lo hanno avvicinato alla luce di un sole che gli ha bruciato le ali per sempre.