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Nick Cave and the Bad Seeds: “Murder Ballads” (Mute Records, 1996)

By maggio 14, 2020 No Comments

Venite signore e signori, vi parleremo di mariti che uccidono mogli, di amanti tradite, di stragi di bambini o di giovani donne uccise in riva al fiume. Conoscerete la tradizione delle Murder Ballads, che attraverso il tempo, fino ad arrivare ai nostri giorni, hanno raccontato la parte più oscura, più inconfessabile dell’animo umano.
Venite dunque, ma lasciate sempre una luce accesa prima di andare a dormire.

Il male è sempre in agguato.

Precisazione necessaria. Che cosa è una murder ballad? Sostanzialmente non è altro che il resoconto in musica di un omicidio. Ne racconta i dettagli, la preparazione, il finale. A volte a parlare è la voce dell’autore del delitto, sovente quella della vittima, altre volte ancora si adotta la narrazione in terza persona con carattere di ammonimento verso i giovani affinché non smarriscano la retta via.

Avete signore una stanza? Mi invitate a entrare?

Non so quanti di voi siano a conoscenza del fatto che per un paio di anni, Johnny Cash condusse uno show televisivo sulla rete ABC. Il programma ebbe un discreto riscontro negli Stati Uniti, ma fu visto anche in altre parti del mondo. In particolare, divenne l’appuntamento preferito di uno smilzo adolescente di Warracknabeal, una cittadina nello stato australiano di Victoria, tale Nicholas Edward Cave, che raccontò alcuni anni dopo, quando ormai era diventato una rock star di un certo livello, di avere perso l’innocenza guardando proprio il Johnny Cash Show . “ Mi resi conto allora – disse – che quella la musica poteva essere una cosa cattiva. Una bellissima cosa cattiva”.

D’altra parte, fin dall’inizio della sua carriera solista, abbandonati i Birthday Party e la loro miscela di punk rock, in Kicking Against the Pricks, disco di Nick Cave del 1986, alcune delle cover contenute, Tupelo, The Long Black Veil – già nel repertorio del The Man in BlackHey Joe, un traditional, trasformato in inno psichedelico da Jimi Hendrix, mostravano un filo diretto con Folsom Prison Blues e la sua “Ho sparato a un uomo a Reno, solo per vederlo morire” e con tutte e le altre storie di morte e perdizione cantate da Johnny Cash nella sua lunga carriera.

Certo, nella storia del rock non è stato solo Cave a dedicarsi a tale genere. Già prima qualcuno aveva saccheggiato il repertorio di Leadbelly, uno che di omicidi se ne intendeva, visto che stava scontando una condanna in un penitenziario, quando Alan Lomax durante la sua ricerca e catalogazione delle origini della musica americana, si era imbattuto in lui. Basti pensare che Where did you sleep the last night, rifatta dai Nirvana nel loro Unplugged, discende dalla ballata In the Pines, un brano della tradizione folk americana risalente alla fine del diciannovesimo secolo, che venne sdoganato proprio da Leadbelly.

Per non parlare di Gallows Pole, portata alla notorietà dai Led Zeppelin, un pezzo d’importazione britannica assai antico e che ha inoltre precisi analoghi nelle Balladries siciliane, catalane e tedesche.

Abbiate misericordia con me, signore , non ho un posto dove stare.
Vi racconterò una storia.
E giuro che è vera.

Il 20 febbraio del 1996 è pubblicato il nono album a nome di Nick Cave and the Bad Seeds, Murder Ballads. A leggere le note di copertina dell’edizione deluxe del cd, sembra che la genesi del lavoro si debba trovare nella canzone O’Malley’s Bar, una torrenziale enfatica descrizione splatter di omicidi compiuti dal protagonista, composta alcuni anni prima e che non aveva mai trovato spazio nei dischi precedenti.

Insieme alla band, arricchita dalla stabile presenza di Blixa Bargeld, in libera uscita dagli Einstürzende Neubauten, troviamo vecchie conoscenze come Anita Lane e Shane MacGowan dei Pogues, e nuove collaborazioni come PJ Harvey, con la quale il buon Nick ebbe un flirt all’epoca, nonché la star del pop Kylie Minogue.

Mai come in questo disco Nick Cave risulta essere debitore a Johnny Cash. Non solo perché anche lui si veste di nero o per il tono di voce enfatico. (A dire il vero, a guardare i due non può non venire in mente Robert Mitchum nel film La morte corre sul fiume, il suo personaggio , Harry Powell, sedicente predicatore evangelico con la scritta “LOVE” tatuata sulle dita della mano destra e “HATE” su quelle della sinistra). Ma è nel modo in cui sentono o interpretano le canzoni che si evidenziano le differenze.

Cash canta come se fosse in missione per conto dell’Onnipotente. In fondo, nonostante le sue numerose cadute nel peccato e le sue altrettante resurrezioni, rimane un uomo di fede. Per lui, alla fine della lunga strada che è la vita, c’è sempre una luce accesa, la salvezza dell’anima. In alcuni casi, l’omicida , si risveglia, come se fosse stato fino a quel momento in trance , e si rende conto dell’orrore che ha causato. È il momento in cui Adamo ed Eva scoprono di essere nudi e ne provano vergogna. Ma c’è una sicurezza, nella religiosità di Cash : nessuno sarà lasciato indietro, anche il peggiore assassino se si pente può sperare nella redenzione.

Cave, al contrario, non crede a un Dio interventionist, come si troverà ad affermare in seguito. C’è da chiedersi, se, alla luce delle ultime sue tristi vicende familiari, il suo atteggiamento oggi sia cambiato, come in un certo senso fa intravedere la spiritualità che permea il suo ultimo lavoro Gostheen.

Ma quando incide Murder Ballads, ancora molte cose non sono accadute, e quindi per lui on esiste nessuna salvezza.

L’omicidio si consuma in due sole dimensioni temporali. La colpa del male commesso non rappresenta un peso da portarsi dietro nella vita ultraterrena, per la semplice ragione che non esiste nulla dopo la morte. Anche se simbolicamente il disco si conclude con la cover di Dylan, Death is Not the End, passerella che ricorda il finale del Settimo Sigillo di Bergman con i vari personaggi che si tengono per mano trascinati dalla Morte, unica Signora del destino del genere umano.

Normalmente, la conclusione di una murder ballad vuole essere didascalica, come nei morality plays, ma nelle canzoni di Nick Cave – siano brani originali o presi dalla tradizione – i protagonisti non mostrano segno di pentimento. Essi non hanno una percezione del loro futuro, ecco perché parlavo di una bidimensionalità del delitto. Esiste un prima, qualcosa da rivivere con compiacimento o freddezza, c’è poi il presente che si sta vivendo, spesso gli ultimi istanti che separano la vittima dalla morte o gli ultimi passi prima di salire sul patibolo, come accade al protagonista di Knoxville Girl, un traditional che trovate come b-side di Henry Lee.

Dopo non c’è nulla, solo un pozzo nero che ingoia tutto. Nessun segno di debolezza, nessuno spiraglio di luce raggiungerà il cuore del malcapitato, perso nell’oscurità del suo stesso male.

Lei non era più con me.
Giace da qualche parte, questa creatura amabile
Sotto le sabbie che lente si accumulano
Con i capelli pieni di nastri e guanti verdi sulle mani.

Non si può ignorare la scelta iconografica, propria della fine dell’Ottocento, di pubblicare le immagini di quelli che venivano definiti all’epoca mostri sanguinari. Le loro gesta, raccontate nei giornali e nelle cronache del tempo, hanno eccitato la fantasia popolare e tramandato fino ai giorni nostri alcuni loro nomi. In realtà quello che ci troviamo ad osservare è solo una sequenza di facce anonime, uomini e donne, anche molto giovani. Come è giovane la protagonista di The Curse of Millhaven, la quindicenne Lottie, la canzone che nel suo incedere martellante da Cabaret a Berlino durante la Repubblica di Weimar , racconta la storia dei sanguinosi omicidi che funestarono la piccola cittadina di Millhaven.

Quando, alla fine scoperta, e incarcerata in un manicomio criminale le viene chiesto se senta rimorso, lei risponde: “Ma certo! C’è così tanto altro che avrei potuto fare se me l’avessero lasciato fare!”.

Torniamo alle foto. Una sequenza di sguardi seppiati, spenti, privi di empatia. Al contrario, quello che si nota fin da principio è semmai indifferenza, distanza, incredulità, anche irritazione, che nasce dalla scarsa familiarità con quel nuovo strumento, la macchina fotografica. I loro volti osservano l’obbiettivo. Sono lì, eppure allo stesso tempo sono persi in un altrove che sfugge a chi li guarda. Ed è proprio questo, la sensazione che i loro occhi fuggano dal confronto con la giustizia, che i lettori dell’epoca scambiavano come prova evidente della loro crudeltà, il convincimento, oltre ogni ragionevole dubbio, che si fossero davvero macchiati di quei crimini aberranti.

Quello che una volta veniva definito il marchio di Caino, la deformità fisica che, secondo la Bibbia, Dio pose sul volto del primo omicida della storia e che doveva essere tramandato alla sua discendenza.

E loro facce, sulle quali la scienza lombrosiana si accanirà per anni a ricercare segni di una presunta devianza, però, rimangono così simili a quelli di centinaia di migliaia di altri ritratti del tempo, comuni cittadini che non si sono mai macchiati di qualsivoglia reato e che invece mostrano la stessa sensazione di disagio ad essere fotografati. Quello, semmai, che le storie e i visi dei vari Henry Howard Holmes, il “Dottor Tortura, Mary Ann Cotton o della coppia Burke e Hare insegnano è che non esiste nessun marchio di Caino. Il male, alla pari del bene, è presente in ognuno di noi, è parte insita del nostro essere: sta al nostro libero arbitrio, alla nostra morale, alla nostra fede – per chi crede – riuscire a non lasciarlo libero.

È inutile, poi, cercare qualche spiegazione, un senso nelle Murder Ballads di Nick Cave.

A volte è solo il destino, il Fato nel senso greco del termine, la forza superiore dinanzi alla quale Dei e uomini si devono inchinare. Il Fato governa le vite dei protagonisti e decide i loro incontri. È quello che succede alla povera Mary Bellows in The Kindness of the Stranger.

Fuggita da casa per vedere il mare, finirà la sua esistenza ammanettata al letto di una pensione e con una pallottola nel cervello. Alcune volte il Fato bussa alla porta, come in Song of Joy, dove il narratore racconta di essere da anni sulle tracce dell’uomo che uccise sua moglie, Joy, assieme alle loro figlie. Ma il modo di raccontare le proprie vicende, così denso di dettagli, così freddo e impersonale e qualcosa di sgradevole in lui, ci fanno presto pensare di trovarci davanti a un omicida fuggiasco e non ad un uomo distrutto.

Spesso un motivo plausibile non esiste nemmeno, come nella già citata Knoxville Girl, dove la vittima viene ferocemente bastonata a morte dal proprio fidanzato senza alcuna spiegazione o come nella Where the Wild Roses Grow, che divenne la hit del disco, complice il video girato dal regista Rocky Shenck, dove il corpo esanime di Kylie Minogue immerso nelle acque di uno stagno, con gli occhi spalancati verso l’eternità della morte, tanto ricorda il dipinto Ophelia di John Everett Millais.
Certo non può essere la frase “All the beauty must die” a spiegare il raptus che porta all’omicidio di Elisa Day, uccisa dal suo innamorato vicino a un cespuglio di rose selvatiche.

E se per caso vi sembra di trovarlo quel motivo, attenzione potrebbe essere solo una falsa traccia, una recita dell’assassino che, nella sua vanità, approfitta di un palcoscenico e di un pubblico per raccontare il proprio crimine. Come se rivivere quei momenti possa soddisfare ancora una volta la propria lussuria e le pistole, i coltelli, il bastone – nella più classica idea freudiana – siano l’organo sessuale che viola la purezza della sua vittima.

È la stessa eccitazione sessuale che prova il sanguinario protagonista di O’Malley’s Bar mentre uccide madre, padre e figlia, nella sua linea cruenta di omicidi senza senso, oppure in Stagger Lee, che racconta un fatto realmente accaduto nella notte di Natale del lontano 1852, a Saint Louis (Missouri), quando William “Billy” Lyons, colpevole di avergli preso il cappello per scherzo, viene ucciso dalla pistola di “Stag” Stagger Lee (oppure Stagolee, Stack Lee, Stack O’ Lee) che gli pianta quattro pallottole in pancia, si riprende il suo cappello, e freddamente se ne va per la sua strada.

Ma non c’è solo questo nella galleria di orrori di Nick Cave. Faremmo torto agli ascoltatori se non menzionassimo il pezzo pregiato della raccolta, ovvero la fredda determinazione di una amante che non vuole rinunciare al proprio amore, come avviene in Henry Lee, una canzone folk americana già conosciuta come Young Hunting, dove PJ Harvey, perfetta dark lady, pugnala mentre abbraccia in un ultimo amplesso, l’uomo che vuole tornare dalla moglie e dai figli.

Trovarono Mary Bellows ammanettata al letto
Con uno straccio in bocca ed un proiettile in testa
Oh, povera Mary Bellows

Siamo arrivati alla fine.

Come dicevo all’inizio, la funzione di queste ballate voleva essere didascalica, d’altra parte era pratica comune, portare i bambini ad assistere alle esecuzioni capitali, per mostrare loro quali potessero essere le conseguenze del crimine. Esemplari in questo senso sono le riflessioni del protagonista davanti al corpo penzolante e già profanato dai becchi dei corvi di un uomo che ha ucciso la moglie, che trovate all’inizio del romanzo “ Mia cugina Rachele” di Daphne du Maurier.

Ma per quanto riguarda Nick Cave, a mio parere, la spiegazione non può essere così semplice.

Quello che le sue canzoni ci dicono è che all’interno della nostra mente è presenta una linea labile, quasi invisibile, tra coscienza e pazzia che è meglio non spezzare. È un burrone che non si deve oltrepassare e davanti al quale dobbiamo resistere alla tentazione di guardare nell’abisso che si spalanca sotto i nostri piedi.

Come Lucifero si vanta della propria malvagità, così il criminale si guarda nello specchio proibito – quello che riflette la parte più ferina del nostro essere – e ha deciso che gli piace quello che vede.

Nella sua spasmodica ricerca di immortalità, l’unica possibilità che gli rimane è quella di perseguire la strada del crimine e lasciare le sue creazioni, i suoi omicidi, ai posteri , come testimonianza della propria arte.

Esiste un’oscurità in ognuno di noi – forse è proprio questo il loro messaggio ultimo – che sarebbe meglio non esplorare, perché una volta che ci si addentra in essa, perdiamo ogni possibilità di ritorno. Come nelle foreste più fitte, dove il sole non riesce a penetrare attraverso dei rami degli alberi, così la grazia di Dio o la luce della ragione non possono raggiungere l’anima e la mente dell’assassino, perso nel suo viaggio di sola andata verso il Buio.

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