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Paul Weller, l’uomo cangiante

By aprile 30, 2020 No Comments

Quella di “uomo cangiante” è una definizione che siamo sicuri a Paul Weller non solo piaccia parecchio, ma gli calzi anche a pennello. Tanto è vero che è stata il titolo della sua biografia scritta da Antonio Bacciocchi.

Bisogna andare indietro nel tempo, precisamente al 1990, anno in cui cala il sipario sulla premiata ditta Style Council, per comprendere, sebbene in parte, le ragioni o meglio le basi di questo cambiamento. Se poi, dobbiamo essere pignoli, a parere di chi scrive, bisognerebbe andare ancora più indietro, all’uscita del disco degli Jam, la precedente band di Weller, All Mod Cons, nel 1978.

Infatti, proprio allora compaiono quelli che poi diverranno alcuni tratti distintivi della sua carriera solista e comincia a notarsi l’allontanamento dall’ortodossa estetica Mod, della quale il gruppo, fin dalla nascita era diventato alfiere. È proprio nella coda del brano In the Crowd, che forse si ritrovano i semi della futura carriera di Weller. Il suo finale psichedelico, dispersivo e poco funzionale, stona con il resto del repertorio degli Jam e la loro essenziale efficienza e compattezza.

Weller che degli Jam era stato l’unico o quantomeno il principale compositore – solo un paio di canzoni finite sui dischi, non sono sue – avverte infatti la necessità di cambiare una formula che mostra alcuni segni di stanchezza. Cambiamenti che già saranno presenti, seppure in maniera diversa, forse più commerciale, nelle canzoni dei dischi seguenti, Sound Affects e The Gift.

Poi, sempre inseguendo l’idea di un prodotto che possa raggiungere una maggiore porzione di pubblico, scioglierà la band e fonderà insieme a Mick Talbot alle tastiere, Steve White alla batteria e la compagna di allora, D.C. Lee ai cori, gli Style Council.

Un gruppo che specialmente nel biennio 1984 -1985 si pone come una delle realtà più credibili e interessanti di quello che molti considerano il decennio di plastica, gli spesso vituperati (a torto) anni Ottanta. La loro musica ingloberà sia le istanze più moderniste e sociali degli Jam (appartenenti alla working class e di sinistra) per quanto riguarda i testi, sia – per quanto riguarda le influenze musicali – una sensibilità aperta al jazz degli anni cinquanta, al soul o anche a gruppi degli anni Sessanta, (penso ai Kinks, la cui ombra si stende su almeno una cinquantina di nomi della musica inglese degli ultimi quarant’anni).

Ma anche questo ciclo, presto o tardi arriva alla fine. E nel 1990, all’indomani di un disco dalla complicata e controversa lavorazione, Modernism: A New Decade, che vedrà la luce solo nel 1998, decide di staccare la spina ai Council.

Bere da una tazza rotta
Il cui luccichio dorato sta svanendo rapidamente
Pregando che non sia passato

Gli anni che lo separano dalla sua prima fatica solista, Paul Weller del 1992, non sono solo di riposo per il Paul Weller Movement, collettivo con cui si esibisce dal vivo, mettendo a punto le linee guida dei lavori futuri.

Quando il disco arriva al pubblico, fin dal primo brano Uh-Huh Oh Yeh, si comprende la netta inversione di tendenza rispetto a quanto fatto con gli Style Council.

Con Cafè Bleu, Weller era stato molto influenzato da una visione personale del cool jazz di Miles Davis e di Gil Evans, chiaramente annacquato e contaminato, mentre con il disco successivo, Our Favorite Shops, lo sguardo si era posato su sonorità soul, meglio, Northern Soul. Dal terzo album in poi, però, era come se fosse venuta a mancare una bussola che lo guidasse in una direzione certa, fino ad arrivare al singolo Promised Land, che nei suoi remix, ammiccava in modo spudorato a certa musica House che allora cominciava a fare capolino sul mercato discografico.

La polo Fred Perry c’è sempre, come il caratteristico caschetto, ma brani come Bull Rush o Into Tomorrow – singolo trainante dell’album – si dimostrano più formalmente elaborati di quanto composto per gli Jam e più spontanei e diretti rispetto alle canzoni degli Style Council.

Il passato però non è completamente dimenticato: Remember How We Started, Above The Clouds o The Strange Museum avrebbero trovato posto senza problemi nei dischi del vecchio gruppo, con le loro atmosfere notturne e rarefatte. D’altra parte, Weller si mostra quasi esitante a recidere il cordone ombelicale che lo lega alla vita precedente.

Inoltre, si nota la vicinanza, più o meno dichiarata, agli ambienti di quella che è la tendenza musicale inglese del momento. Stiamo parlando dell’Acid Jazz, che coniuga il feeling di un certo jazz di fine anni sessanta, intriso di soul o funk, con le ritmiche della dance e con il rap. Illuminante a tal fine è Jazzmatazz, Vol 1 di Guru, vero e proprio melting pot dei generi sopra elencati.

Weller e la sua compagna si troveranno a collaborare con i Mother Earth nel loro secondo album, People Tree del 1993, un’opera minore da riscoprire, se vi piacciono le sonorità Sixties degli Small Faces o degli Spencer Davis Group, con chitarre elettriche sature e organi hammond a manetta.

Giorno dopo giorno il tuo mondo svanisce
In attesa di sentire tutti i sogni che dicono
La pioggia dorata ti porterà ricchezza

Si arriva al secondo album, Wild Wood del 1993.

Se il primo passo era stato un laboratorio di spunti musicali, il secondo disco mostra un orientamento più compatto. È un linguaggio adulto, quello del rock inglese, dei Traffic meno psichedelici, dei Faces di Rod Stewart, anche degli ultimi Beatles, quelli di Harrison piuttosto che di McCartney.

Il climax, a partire dalle foto della copertina, è bucolico: il classico ritiro in un cottage nella campagna inglese, che tanto ha ispirato la letteratura musicale anglosassone. Un giusto equilibrio di ballate e cavalcate energiche. In confronto all’album precedente, che si caratterizzava – in senso pittorico – con bozzetti e acquarelli, il nuovo lavoro si presenta come una serie di dipinti a olio. Tali, infatti possono essere considerati, nella loro solennità, Can You Heal Us (Holy Man), The Weaver e Shadow Of The Sun, o la title track, una intima ballata acustica, che devono più a Steve Winwood che a Peter Townshend.

Forse, se si vuole trovare per forza una pecca, è proprio questo gioco di riflessi che impedisce al disco di fare il passo decisivo per passare dalla categoria degli ottimi album a quella dei classici. Questa sua mancanza di coraggio è un limite del quale proprio lo stesso Weller si rende conto e che terrà in considerazione per il prossimo futuro. Wild Wood non è un punto di arrivo: in realtà è ancora nel mezzo di un percorso non definito completamente, di chi ha deciso di avanzare senza mai guardarsi indietro.

Con tutti i rischi del caso.

Ti senti ancora allo stesso modo
Come hai sempre detto che avresti fatto
O il tempo ha riscritto tutto
Come non avresti mai immaginato di poter fare

Indicative a tal fine, sono le sue performance live, immortalate in Live Wood del 1994, dove una volta pagato il debito giovanile a Pete Townshend con la citazione di Magic Bus sul finale di Bull Rush, le canzoni dei due dischi precedenti, tolta l’incertezza – per quanto riguarda il primo album – e la sacralità – parliamo di Wild Wood – dello studio di registrazione, acquistano vivacità e vigore spontaneo. Inoltre, se c’erano dubbi a riguardo, lo stesso Weller, a comando di una band ineccepibile, si dimostra un grande chitarrista.

Parentesi necessaria.

Non si può non menzionare, quello che in parte è stato forse l’ultimo significativo movimento musicale inglese: il famoso o famigerato Brit Pop, con i suoi esponenti di spicco quali gli Oasis, Blur, Verve, The Boo Radleys etc etc. Sono proprio loro, figliocci bastardi di Beatles e Rolling Stones, nipoti spuri di Kinks e Yardbirds, quelli più vicini al nuovo Paul Weller.

Infatti, alcuni di loro, non solo non mancano mai di esprimere pubblicamente la loro ammirazione e devozione, considerandolo quasi il loro santo patrono , ma anche, in maniera quasi spudorata, ne riprendono gli atteggiamenti del periodo Jam. In particolare, è abbastanza tangibile il feeling con Noel Gallagher degli Oasis, il quale più volte intervistato a riguardo, ha sempre dichiarato che la sua canzone preferita è Tales From The Riverbank, splendido singolo degli Jam.

Come il lancio di un perdente
Troppo lento e corto per colpire le vette
Sì, così perso e solo
provando a tornare a casa

Il passo successivo è quello della consacrazione. Anticipato da un singolo killer, manifesto della nuova dimensione artistica, The Changing Man, il 15 maggio del 1995 viene pubblicato Stanley Road.

Il disco esprime la parola definitiva sul Brit Pop, lo esalta ma al tempo stesso ne decreta la fine, per manifesta inferiorità degli avversari.

Dopo Stanley Road, gli Oasis entreranno in una fase conflittuale e confusa per spegnersi lentamente, mentre i Blur, più saggi, decideranno di percorrere strade diverse. Troppo arduo il confronto con un tale monolite.

Il risultato ha tutti crismi del classico e le stigmate del capolavoro. Nonostante siano passati quasi venticinque anni, non sembra avere perso un’oncia (parlando di Gran Bretagna, la misura è corretta) di freschezza e ancora oggi non suona per nulla datato, al contrario di altre uscite dello stesso periodo, ribadendo il concetto che se le canzoni sono buone, non invecchiano mai. Proprietà aurea dei grandi dischi della musica Rock.

La copertina, del resto, è già indicativa, frutto della mente e della bravura di Sir Peter Blake, l’uomo che ha creato l’assembramento illegale (in tempi di Covid-19) dell’art work di Sergent Pepper dei Beatles.

E poi ci sono le canzoni.

Il pezzo iniziale, The Changing Man si lega idealmente con la coda di In the Crowd, eppure sono passati parecchi anni e tanta acqua, musicalmente parlando, sotto i ponti.

Se poi in Wild Wood, parlare di Steve Winwood non era peccato, eccolo materializzarsi in persona in due brani, Woodcutter’s Son e Pink On White Walls.

Noel Gallagher, invece, paga il proprio debito (Paul era apparso nel brano Champagne Supernova contenuto in (What’s The Story) Morning Glory? suonando la chitarra nella cover di un classico di Dr. John: I Walk On Gilded Splinters. La versione di Weller trasporta la canzone dagli oscuri vicoli del quartiere francese di New Orleans, a un anfetaminico after party di una discoteca di Manchester.

Da ricordare, ancora la semplicità di Broken Stones, dove il compagno dei vecchi tempi, Mick Talbot, si produce in un’incalzante prestazione al piano elettrico fender.

Ma è la ballad, You Do Something To Me a svelare un lato poco conosciuto, quello romantico al limite dello svenevole, di Paul Weller: come mandare la perfezione ai piani alti della classifica, nei suoi tre minuti e mazzo di eleganza e classe.

Poi ci sarebbe, ma non è necessario se volete, il mio pezzo preferito, Whirlpools’ End, dove compare Steve Craddock degli Ocean Colour Scene – che in futuro sarebbero diventati la live band di Weller – colonna sonora perfetta per un documentario su Londra negli anni novanta, attraversata dal suo ultimo rinascimento culturale, prima, di ripiombare nella normalità.

Quello che verrà dopo Stanley Road, potremmo definirlo – prendendolo a prestito dalla terminologia delle serie tv – come il salto dello squalo. Tentativi, a volte riusciti a volte meno, di procedere verso nuove direzioni, che però non porteranno mai più allo stesso risultato, ma in ogni caso apprezzabili, nati della necessità di non fossilizzarsi o di vivere della rendita dei successi ottenuti.

Stanley Road si può considerare come il mausoleo di un certo Rock Inglese, quello degli anni sessanta e settanta, che dominava il mondo. La summa della carriera di Weller, con gli Jam e con gli Style Council nel passato più lontano, o addirittura un omaggio ai suoi gusti musicali, andando indietro al tempo mitologico – per dirla con Robert Plant – degli Dei Dorati, e lo pone nel Pantheon dei più grandi song writers inglesi, insieme a gente del calibro di Ray Davies, Pete Townshend e Paul McCartney, Elvis Costello.

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