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Governare il vuoto: quando vent’anni fa i Radiohead realizzarono Kid A mettendoci in guardia dal futuro

By dicembre 29, 2020 No Comments

Anche Kid A ha vissuto la sua adolescenza e ne è uscito sempre più giovane. Vent’anni senza dimostrarli. Se non ci fosse un dato anagrafico a consentire un bilancio, non si potrebbe considerare un simile album risalente addirittura al 2000. Ma il progetto forse più ambizioso dei Radiohead ha superato tanti eventi storici, dall’11 settembre alla pandemia, arrivando ad un contemporaneo che sembra proprio quello pronosticato nel disco quando ancora non c’era quasi nulla di quel nuovo millennio. Indubbiamente, la genesi di una simile meraviglia non ebbe vita facile, perché nacque in periodo di incontenibile successo, l’apice che può essere drogante e deleteria ai fini creativi. Anche questo elemento discordante permise a Thom Yorke e soci di disegnare una visione alterata della musica per le masse, necessariamente criptica per la sua complessità. Proprio per suggellare una libertà artistica necessaria e assoluta era quasi necessario che un disco simile arrivasse da un momento di crisi, da una popolarità dominante e opprimente in cui l’ansia da prestazione prevaricasse ogni possibilità di indipendenza, impedendo alla band di comunicare con la creatività.

Subito dopo la scossa globale determinata dalla prospettiva desolante e innovativa di Ok computer, manifesto di un isolamento individuale che si intreccia con un orizzonte alieno e impercettibile, tutti si aspettavano qualcosa che sconvolgesse gli animi allo stesso livello. In realtà, questo conformismo commerciale non si addiceva – fortunatamente – ai Radiohead, che probabilmente avrebbero voluto una maggiore serenità artistica che però ormai mancava. Questo smarrimento, generato da aspettative, imbarazzi e paure sarà il catalizzatore di una visione totalmente disarmante della realtà circostante. Prende forma la possibilità di una costruzione onirica di suoni e atmosfere dai toni austeri, quasi un punto di arrivo alla fine di un percorso artistico ragionato. Non ci sono trucchi o inganni, perché tutto reale e puro: Kid A è quasi un visionario presentimento su un eterno ritorno dell’uguale, che in questo caso si manifesta in un’alienazione inevitabile fra uomo e società che si ripete nella Storia anche nella dimensione tecnologica.

Ecco che l’estetica musicale ritorna a un minimalismo decostruttivo e scolpisce quasi un trattato sulla post-modernità. Yorke arriva a realizzare con la band quest’ambizione partendo da brani realizzati e conservati già ai tempi di Ok computer, ritornelli rielaborati, accordi pensati e appuntati, il contributo di una tecnologia che già alle soglie del 2000 in un disco del genere era avanti anni luce. In questo totale caos di intuizioni e ossessioni, i Radiohead si riappropriano di un’autodeterminazione artistica personale e intima, abbandonando ogni compromesso con una popolarità che avrebbe potuto condizionarne il talento e l’originalità: realizzare il punto di rottura fra vecchio e nuovo secolo. In effetti, alle soglie del terzo millennio, di cui ormai si ricorda solo che tutto sarebbe cambiato partendo da termini come globalizzazione, millennium bug o era digitale, già era possibile tracciare una certa mappatura.

In realtà, tutto divenne soltanto più veloce e inafferrabile, oltre che ineluttabile ed effimero. Kid A è il concept album che ha saputo radiografare la mutevolezza individuale e l’isolamento tecnologico attraverso una descrizione decadente del progresso. Una simile visione metafuturista si discosta dai parametri di un percorso logico per giungere a dimensioni introspettive sfuggenti e distopiche. Questo laboratorio sonoro potentemente ispirato e poliedrico deriva da una costruzione emotiva angosciata e abbandonata ad un senso di solitudine che, tuttavia, sembra essere profondamente rispettata. I testi si proiettano verso flebili segnali di consolazione, nonostante prevalga un’oppressione quasi ingestibile. La lucidità con cui Yorke accompagna il percorso sonoro è percepibile dalle contaminazioni che variano dalla musica classica alla musica elettronica, da campionamenti interrotti da archi fino ai riff piangenti di Jonny Greenwood allontanati da contrattempi impetuosi.

Arriva come una doccia fredda Everything in its right place ad aprire il disco, quel tentativo di trovare un equilibrio e un ordine, che però genera l’opposto: un panorama algido e immobile che collassa su sé stesso cercando vie di fuga attraverso costruzioni sonore. L’armonia dissonante, un sintetizzatore, la voce che si destruttura: già questa tempesta apre a una prospettiva nichilista. Ma è la successiva titletrack che consolida il simbolismo più assoluto, sintetizzando perfettamente la dispersione emotiva: Kid a nasce quasi dai toni melodici di una fiaba, si sovrappone alla realtà e diventa un ingranaggio inceppato. Una litania quasi incomprensibile traghetta queste contaminazioni fino a The national anthem, il vero orizzonte allucinato in cui il suono ridondante del basso e le nervature metalliche prodotte dalla voce folgoranti navigano verso un immaginario sconosciuto. Anche in questo spazio musicale arrivano gli influssi esterni, i fiati, il free-jazz che arricchisce lo scenario – ormai visivo più che musicale – di un tempo interrotto.

Già questo tratto basterebbe a immortalare una generazione, a descrivere una distopia non ricercata ma piombata in questo tempo. Tuttavia, è con How to disappear completely che si percepisce davvero l’estetica impeccabile dell’album: una sorta di quiete addomesticata negli accordi e negli sfondi che riportano ad un’aurora soltanto contemplata. Treefingers, superata questa strada di riappacificazione, si adagia su un terreno musicalmente più tenue ma strutturalmente più inquietante, che sembra mostrare solo la forma delle ombre attraverso suoni immobili e invalicabili; il percorso dell’album viene stravolto da un intermezzo strumentale che persiste in questa decostruzione. Optimistic, invece, cerca di mostrare la prospettiva della speranza e regala una dinamicità melodica che si riflette anche sui testi con un ritornello quasi incoraggiante (you can try the best you can). Questo senso di apnea, preludio di un’immobilità ingestibile, si dimena e diventa In limbo, un’isola deserta che regala soltanto visioni di un confine immaginato e mai raggiungibile. Idioteque, un pò il climax dell’intero album, cristallizza questa meccanizzazione universale, si compone di frammenti sonori rimbombanti, campionamenti allucinatori e una coscienza nitida persa in una nuova era glaciale.

Questo vortice si attenua parzialmente in Morning bell, una contrapposizione all’incompiuto di estrema violenza che sembra tentare una ricostruzione nella sincronia attraverso nuove sonorità. Prima che le luci si spengano, Motion Picture Soundtrack scuote un equilibrio precario e guarda con struggente empatia a un passato che si allontana sulla scia di un organo (I will see you in the next life). Senza avere il tempo di riprendersi, Untitled chiude questa odissea sonora con un brevissimo brano strumentale che sembra una fuga verso l’ignoto, ormai preferibile alla realtà. Nel corso del tempo, si è parlato tanto di questo traguardo musicale, poi considerato un evergreen di un certo periodo della musica che apriva alla sperimentazione come valvola di sfogo verso l’ignoto. Ancora oggi Kid A è un disco meravigliosamente dinamico, rigoroso e attuale, quasi un manifesto politico di questo futuro primitivo, di questi giorni che riducono le relazioni sociali ad algoritmi e digitalizzazioni. Dopo vent’anni, ci si può ancora rifugiare nei paesaggi musicali di quest’opera osservando da vicino quell’alienazione che non è più un giudizio soggettivo, ma la logica conclusione del progresso. Kid A è un’interpretazione crepuscolare del tempo, quasi una trasposizione musicale de L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse in chiave futurista, come se la post-modernità fosse una scatola chiusa alla base di un ingranaggio blindato e impenetrabile. Kid A è uscito il 2 ottobre 2000 ma è come se ci fosse sempre stato.

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