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Tame Impala: “The Slow Rush”, il tempo come musica

By febbraio 14, 2020 No Comments

Kevin Parker è fra i musicisti che hanno sempre mantenuto una visione d’insieme della musica, la cui dimensione trascendentale ha generato un suono che appare come un organismo vivente o una dimensione da vivere. Quest’onda sonora invalicabile è quasi fagocitata da una psichedelia congenita che diventa una distesa di colori e voci in prospettiva. I Tame Impala nascono nella nuova realtà psichedelica australiana, quella che negli ultimi anni ha ricevuto (necessarie) particolari attenzioni per band come Pond e King Gizzard & the Lizard Wizard.

Nonostante Innerspeaker o Lonerism abbiano rappresentato un’elaborazione psych-rock talmente ambiziosa da apparire quasi sperimentale, che riporta alla luce intuizioni degne di The Piper at the Gates of Dawn dei Pink Floyd, la svolta di Currents ha spostato il baricentro musicale di Parker, portando lo stile ad un livello emozionale superiore e più equilibrato.

C’è sempre quell’eco lontana che rende le parole un linguaggio indeterminabile, ma non i riff incandescenti, quasi materici, che modellavano l’impatto sonoro attraverso sogni indecifrabili. The Slow Rush, quarto disco in studio della band australiana, sembra essere il punto di arrivo di un cammino – intrapreso da Parker – nato da un’interazione fra neopsichedelia ed elettronica, per approdare un pop psichedelico particolarmente raffinato.

Non si tratta di una parentesi isolata, ma di una percezione quanto mai nitida delle potenzialità di un autore che riesce a sintetizzare una proiezione interiore in un susseguirsi di immagini sonore. Le atmosfere a tratti esotiche e naturali, a tratti metropolitane e notturne, sono lo sfondo di un album che parte dallo studio di un concetto: il tempo. Parker scrive e compone i tratti di una confessione personale, un tempo che non si percepisce, la vivace versatilità di impulsi e segnali come fulgida visione contemporanea della musica che si ricerca in sé stessa, ripescando tonalità e costruzioni elettroniche quasi ipnotiche.

Quest’immaginario digitale prende vita sin dai primi brani, quando One more year, Instant destiny e Borderline proiettano le coordinate di un incantesimo che cambia muta e rinasce su canali melodici alternativi (Posthumous forgiveness). Tuttaiva, Breathe deeper interrompe questa linea musicale e porta l’effetto sonoro addirittura a un livello più complesso, dove pianoforti in sottofondo ed effetti R&B rendono l’album solo il mezzo per giungere ad altre destinazioni.

Tomorrow’s dust arriva a rievocare le sonorità di fine anni ’80 del secolo scorso, dove anche una base di chitarra acustica sullo sfondo è sufficiente a trasmettere un messaggio. Probabilmente, con On track è possibile già considerare questa prima parte dell’album come un diario personale di Kevin Parker, il messaggio intimo e profondo di un visionario che riesce a disegnare musica attraverso impulsi e connessioni.

Lost on yesterday torna a quei giri di basso tipici dei primi album, ma anche stavolta tutto è più immediato, senza sovrastrutture strumentali; persistono soltanto suono e voce. Se la neopsichedelia si limitasse a ripercorrere i tratti di un’epoca passata, tracciando unicamente i binari di un influsso melodico ormai consuetudinario e mai influenzabile da correnti sonore estranee, tutto si ridurrebbe a una svilente copia sbiadita, un omaggio insignificante segnato da un’irrilevanza di fondo.

Un album simile rende l’estetica un elemento necessario in cui il dettaglio di un suono ne estende all’infinito la portata. Is it true, It might be time e Glimmer personificano questo sincero smarrimento personale descritto da Parker rendendo la musica una meditazione assoluta, uno stato dell’essere errabondo e inarrivabile.

Risvegliatosi da un sogno, ecco che One more hour assembla tutti i pezzi, i ricordi e le passioni, chiudendo degnamente l’album. Sembra tutto collegato a quel Let it happen che aveva dato ingresso a una missione profondamente romantica di conversione musicale, in cui la progressione dei sensi è speculare a quella sonora. Quei richiami profondi, in cui emergono influssi sonori degni degli Air, trasmettono il senso di una riflessione immanente che colpisce come una corrente indomabile in cui la musica torna a sé e diventa parte stessa dell’uomo.

È vero, non ci sono più i passaggi armonici Apocalypse dreams né quelle immersioni melodiche commoventi di Desire be desire go, ma Parker ci regala un album biografico puro, che mette in chiaro lo scorrere delle cose, specificando di non rimpiangere nulla, ma guardando indietro per compiere un bilancio personale, proprio come afferma in One more hour:

“Whatever I’ve done/I did it for love (All that I have)/I did it for fun (One more hour)/couldn’t get enough (All that I have)/I did it for fame (One more hour)/but never for money”.

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