HOMEInterviste

The Jesus and Mary Chain, Trail of Dead, Aurora, Her e Girls Names a Ypsigrock 2018

By marzo 28, 2018 No Comments

Colapesce ha intervistato per noi il miglior festival italiano indipendente

© Elisabetta Brian

Ypsigrock annuncia oggi The Jesus and Mary Chain, Aurora, …And You Will Know Us By The Trail Of Dead, Her e Girls Names, oltre ai già confermati The Horros, The Radio Dept., Youngr, Blue Hawaii e Shame.

Abbiamo chiesto al cantautore siciliano Colapesce di intervistare il festival che da anni si è imposto all’attenzione nazionale ed internazionale per la qualità e per il coraggio delle sue scelte. Ecco cosa ne è venuto fuori.

C.: Ypsigrock, per me, non è solo un festival di musica alternativa di qualità, che comunque ne resta la base fondamentale. Il suo essere speciale è un insieme di fattori: la location preziosa, l’essere popolare nei prezzi rispetto alla qualità altissima della proposta, il food popolare ma ottimo (non vi nego che ogni anno non vedo l’ora di tornare anche per concedermi un paio di cene di livello accompagnate da ottimi vini) e l’idea che la sera si può stare freschi ad agosto ma il giorno sei a 10 min da un mare stupendo, tutti elementi che lo rendono unico nel suo genere. So che praticamente, a parte dei piccoli aiuti, il festival è completamente autoprodotto. Mi sembra una follia, ma io amo i folli e quindi massima stima. Però non essendo ormai un singolo episodio di follia mi sembra assurdo che non abbiate un contributo sostanzioso per finanziare l’intera operazione. A livello culturale e di profilo Ypsigrock fa bene all’isola, sicuramente più delle decine e decine di sagre della salsiccia in fiore finanziate per l’ego di qualche assessore di provincia. So per certo che non siete masochisti quindi l’unico motore è la passione infinita che avete per la Musica, quindi capisco e vi ringrazio, però… Non vi girano le palle? Io vi devo ringraziare pubblicamente perché negli anni, ormai tanti, che frequento il festival ho avuto la possibilità di assistere a dei concerti memorabili dei miei gruppi preferiti. Da Deus a Primal Scream, Notwist, Pere Ubu, Stephen Malkmus, Mark Kozelek etc. etc. Mi spiegate bene come (non) funziona, la trafila del supporto al festival?

 

Y.: Per spiegare come non funziona il supporto economico pubblico al festival dobbiamo fare un fondamentale passo indietro e prendere atto del fatto che quello che a tutti gli effetti è un prodotto culturale riconosciuto come tale nel mondo, ovvero il sistema festival, in Italia non è tuttora stato individuato, identificato, distinto e quindi compreso.

Questo stato di totale inconsapevolezza coinvolge purtroppo sia il grande pubblico (parlo dell’italiano medio, che di certo non è il risultato della filter bubble delle nostre conoscenze che distorce la nostra percezione della realtà) che legge “festival” e pensa a Sanremo, sia molti addetti ai lavori, che troppo spesso abusano del termine festival per definire e descrivere eventi che invece sono prodotti di altro tipo come le rassegne musicali: forse si pensa sia cool appioppare quel nome un po’ a tutto senza distinzioni di sorta, di fatto in realtà così facendo non si tiene conto delle implicazioni, dirette e indirette, che comporta ai festival (veri e propri) l’uso e la diffusione di una terminologia impropria.

In questa situazione di smarrimento generalizzato nemmeno la stampa fa eccezione e la maggior parte delle volte non fornisce un servizio utile alla causa, per cui sistematicamente si trovano strafalcioni, inesattezze, banalizzazioni, incongruenze e veri e propri errori sull’argomento.

Infine questo problema di mancata conoscenza della materia tocca ovviamente anche le istituzioni che, se di solito a queste latitudini non brillano certo per lungimiranza, in questo caso si rivelano del tutto miopi.

Quindi direi che da un problema di definizione si arriva ad un problema di percezione.
Un festival è un’esperienza immersiva a 360 gradi che è potenzialmente in grado di generare un importante mercato e all’estero l’hanno già capito da un pezzo, qui ancora nemmeno si è capito quali sono i fattori che definiscono quel tipo di prodotto.

Se si fatica ancora a farsi un’idea esatta di cosa sia realmente un festival, figuriamoci quanto risulti improbabile l’idea che possa essere quindi apprezzato e valorizzato da chi ne avrebbe gli strumenti (e tutto l’interesse!) per farlo, come appunto l’intera filiera del turismo culturale territoriale.

In ogni caso se avessimo fatto del finanziamento pubblico la condicio sine qua non Ypsigrock a quest’ora sarebbe morto e sepolto. In un sistema di favoritismi e scambi il festival avrebbe probabilmente visto schiacciata e barattata la sua identità con qualche imposizione compiacente al politico di turno. E chiaramente noi non abbiamo mai voluto questo.

Quindi viste le dinamiche in cui ci tocca operare ci siamo risparmiati qualche scocciatura, verrebbe da dire. Ma ciò non toglie che certi meccanismi siano da abbattere e quindi schierarsi contro questo stato di cose è fondamentale, a prescindere dai singoli soggetti coinvolti. Ne va del presente ma soprattutto del futuro di questa terra.

 

C.: Avete in qualche modo scardinato tutta una serie di stereotipi di convinzioni che si hanno sull’organizzazione di un evento e sull’indolenza dei siciliani che stanno tutto il giorno al bar. Tirare su un festival di queste dimensioni richiede praticamente un anno di lavoro e il sacrificio di decine di persone che con passione e senza manco il reddito di cittadinanza (è una battuta) si sbattono a cercare di far funzionare tutto l’ingranaggio. Avete pestato i piedi a qualcuno in più di 20 anni di attività? Mi sembra assurdo che non vi finanzino buona parte del festival.

Y.: Di certo siamo degli outsider, non frequentiamo i “giri giusti” con secondi fini. Non abbiamo mai incoraggiato favoritismi clientelari e mai lo faremo. Non ci interessa quel tipo di riconoscimento posticcio. Noi vorremmo semplicemente che il nostro lavoro, che ha segnato per oltre vent’anni la storia e lo sviluppo del mercato culturale siciliano (ed italiano) legato alla musica altra, fosse riconosciuto, rispettato e supportato per il suo specifico valore comprovato. E, insomma, in un contesto sano questa non dovrebbe suonare come una richiesta irragionevole, eppure siamo ancora molto distanti dalla realizzazione di quella che resta una fantasia. E quando parliamo di riconoscimento e supporto non ci si riferisce squisitamente ai finanziamenti. L’investimento economico se non è legato a un certo tipo di consapevolezza e quindi di progettualità vale zero in un’ottica di crescita, diventa puro assistenzialismo, che non è mai un bene. Abbiamo visto una miriade di eventi morire schiacciati da queste dinamiche. E, ad occhio e croce, ne vedremo ancora tanti.


C.: Ypsigrock, forse voi ormai non ne avete più coscienza o forse si, ha anche una funzione pedagogizzante. State educando un certo tipo di pubblico all’ascolto e alla condivisione del bello. Fate venire voglia di fare e di stare bene, producendo cultura a cascata soprattutto per le nuove generazioni di promoter, musicisti e operatori vari della musica. Siete praticamente un modello di sostenibilità culturale ineccepibile, spesso durante l’anno mi trovo a parlare con amici in giro per l’italia, ma anche all’estero, di musica e a un certo punto viene fuori “e ma Ypsigrock è una figata pazzesca, un festival speciale in un posto magico” : è un festival che fa sognare, è una finestra sul mondo in un luogo, la sicilia, dove spesso ci si misura il pene col vicino di casa e si finanziano eventi di dubbio gusto per far emergere “un’identità siciliana” che spesso è solo una macchietta di una terra che fu. Come i vari festival di matrice popolare che di popolare non hanno niente.

Penso che su quel versante la sicilia abbia perso completamente la sua identità, ripropone sempre la stessa cartoline con gli stessi stilemi senza capire che il popolare è materia viva, invece siamo arenati a un’idea di carretto lupara e coppola Midi che crea al massimo turismo da vetrinetta.

Cosa pensate voi dei vostri “competitor”?


Y.: In generale, il marketing turistico applicato al patrimonio culturale in Sicilia, salvo rarissimi casi, è assolutamente anacronistico. Questo non fa certo il bene del settore, perchè non ne permette uno sviluppo adeguato e un’immagine competitiva.

Spesso si assiste ad una autocelebrazione dei tempi che furono, e nel nostro caso anche dei suoni che furono, e quello che ne risulta è una scena, triste, che ricade su se stessa.

Ypsi ha sicuramente disarcionato svariati clichè e siamo orgogliosi di questo. Ci accorgiamo che il nostro pubblico fidelizzato è in grado di cogliere la qualità della nostra offerta, anche quando è un’offerta artistica più di nicchia, che non gioca certo la sua partita sui nomi di spicco, ma sul pacchetto completo fatto di proposte sfaccettate e poliedriche.

Gettare uno sguardo dal finestrino, allontanarsi dal proprio punto di vista è l’ovvietà che ti aiuta a crescere, non ha importanza cosa guardi, piccolo, grande, sconosciuto o rinomato, ciò che conta è la diversità oggettiva per valutarti e valutare. Non tutti i competitor europei si distinguono chiaramente l’uno dall’altro e tanto meno in Italia. Il nostro paese è ormai ricco di appuntamenti di vario genere e spesso accade che i più significativi a livello mediatico sono prodotti fuorvianti e fuori dalle regole ortodosse di un festival, insomma altro spacciato per tale. Alla stampa fanno comodo articoli come i più bei festival dello stivale, generano numeri e seguito, ma dovrebbe seriamente fare approfondimenti, inchieste verrebbe a dire, perché funziona l’effimero e quali sono gli effetti sul medio e lungo periodo nel mercato italiano.

Il panorama italiano di eventi è molto frastagliato e oltremodo eterogeneo e, ad essere generosi, non esistono più di un paio competitor nel nostro specifico segmento di mercato con cui condividiamo stima e reciproca collaborazione.

 

C.: L’aspetto che mi pare più interessante è il fatto che questi festival non si esauriscono mai con la lineup come dice Marcella “sono esperienza immersiva a 360 gradi:  valore culturale / turistico per il territorio e per l’Italia tutta (e qui il tasto dolente è che purtroppo non esistono ancora politiche atte ad una reale valorizzazione di questo tipo di prodotto)”.  Qualche proposta al riguardo?

Y.: Sarebbe già incoraggiante avere il sostegno degli organi preposti ad alcuni servizi che per un evento come il nostro sono semplicemente fondamentali, penso per esempio alla rete (imbarazzante) dei trasporti sul territorio, o alla promozione turistica all’interno di un calendario eventi (regionale e nazionale) che non resti solo un pezzo di carta. E invece a noi, al di là dell’impegno economico, tocca pure operare nell’indifferenza generale, ecco. Cioè il problema non è semplicemente il mancato finanziamento, o meglio quello lo diventa nella misura in cui di fronte al mancato finanziamento al festival, i contributi cadono a pioggia su eventi dalla portata ridicola o perfino inesistenti. Stiamo ancora aspettando che qualcuno ci porti delle prove della qualità e della portata turistica de “la battaglia delle band” di Polizzi Generosa, (che ha ricevuto il finanziamento della Regione Siciliana nel 2017, ndr). Quell’evento nemmeno esiste.

E il fatto che succedano ancora cose come queste, che definire oscure è un eufemismo, è grave non solo per noi, ma per tutti coloro che credono che un futuro diverso sia possibile e soprattutto è grave per chi arriverà dopo di noi, giovane e magari armato di ottime intenzioni, quindi denunciarlo è un preciso atto civico, non un capriccio per fare polemichetta all’italiana.

Nessuno avrebbe avuto nulla da ridire se al posto nostro negli anni avessero ricevuto finanziamenti una serie di eventi davvero meritevoli. Peccato che non sia andata così.
Detto questo, per colmare il gap che esiste tra noi e i festival europei ci sarebbe in primis bisogno di rendere chiaro, a tutti i livelli, quali sono i fattori che definiscono un festival e quali non lo sono e trovare un certo tipo di versatilità nei soggetti coinvolti nell’intera filiera del turismo culturale, servizi di elevata qualità, infrastrutture adeguate, standard di livello internazionale, in poche parole grande professionalità su tutti i fronti organizzativi che riguardano il territorio.

 

C.: Può essere che questa vostra indipendenza, anche economica, nel tempo si trasformi ancora di più in un punto di forza?

Y.: Ce lo auguriamo, ma chiaramente questo dipende da svariati fattori. Noi nel nostro contesto di riferimento abbiamo sempre agito fissandoci quell’obiettivo.

Non ci siamo mai svenduti, nè abbiamo cambiato le carte in tavola quando le cose si sono fatte sempre più complesse, affrontando tutte le conseguenze del caso.

Teniamo molto alla nostra autonomia e non amiamo essere vincolati troppo ad una scena o una realtà che non rispecchi ogni singolo valore della nostra personale visione. I compromessi morali ci stanno stretti.

Abbiamo l’ambizione di pensare che sia possibile fare della cultura una potente leva di sviluppo, specie per il Sud, ma di certo serve un contesto meno viziato da dinamiche faziose.  

Noi siamo un esempio concreto che in Sicilia possono essere fatte cose incredibili, nonostante tutti i nonostante. Ma questo risultato non è frutto della casualità, della fortuna, del mero entusiasmo e neppure di aiuti piovuti dal cielo. Anzi, i nostri risultati parlano di sacrifici, ferite e perdite.

A livello umano è gratificante guardare cosa siamo riusciti a fare, a livello lavorativo invece è semplicemente improponibile, in quanto nessuno di noi ha mai percepito nemmeno un centesimo per fare questo festival e questo tipo di dedizione merita almeno rispetto.

Non supportare un evento come il nostro può risultare piuttosto clamoroso, ma creare disagi o disservizi, con la precisa intenzione di nuocergli, lo troviamo semplicemente squallido.

 

C.: Io ho già prenotato il B&B e nel momento in cui scrivo non so manco chi suona, e questa operazione la fanno centinaia di affezionati. La gente si fida di voi, della vostra direzione artistica, questa vi assicuro è la cosa più bella che può capitare a chi organizza un evento periodico. Forse siete gli unici in italia ormai, altri festival vedo dalle lineup che spesso rincorrono la tendenza del momento, che sicuramente gli assicura più numeri ma li indebolisce dal punto di vista dell’identità. Avete pensato mai di esportare il vostro modello?

Y.: Il nostro pubblico sa che non siamo un festival da asso piglia tutto e che non vogliamo diventarlo ed è entusiasta di poter sperimentare un ascolto e una fruizione vergine da pregiudizi. Se la guardiamo da questa prospettiva la nostra missione che spinge alla scoperta di una Sicilia inaspettata è compiuta.

Poi, per carità, esiste ancora una fetta di pubblico in cui si riscontra il fermo rifiuto di aprirsi all’inaspettato e allo sconosciuto, su tutti i fronti.

Ma quello non è il nostro pubblico di riferimento e non siamo interessati ad includere quel tipo di ottusità nella nostra esperienza. Siamo qui da oltre vent’anni a scardinare porte, non certo ad allietare i turisti musicali della domenica e nemmeno quelli rimasti ancorati agli stilemi del secolo scorso. Non ci interessa compiacere quel tipo di target. Noi abbiamo sempre avuto un obiettivo smaccatamente diverso.

Dalla nostra abbiamo la forte consapevolezza che non è la fama degli artisti ospitati a determinare l’importanza del festival, la sua identità nè tantomeno la sua qualità.

L’italiano medio (sia dal lato utente che dal fronte organizzatore) invece rincorre l’artista affermato come si fa per i singoli concerti, spesso assecondando il gioco fuori mercato delle più grosse agenzie. E questo meccanismo, che è più vicino all’idea di lista della spesa che di festival, funziona pure, perchè i nomi altisonanti sono gli unici che qui riescono ad attirare l’attenzione dei media. Funziona pure sì, sul breve periodo però. Ecco allora poi che assistiamo a cambi di: location, nome dell’evento, periodo, organizzazione, linea artistica. Ovvero zero coerenza identitaria. Non è roba che ci riguarda, la nostra identità è il bene più prezioso che possediamo, non può essere barattato e non è in vendita.

Il nostro è un festival che nasce dal basso e affonda le sue radici in un territorio caratterizzato da peculiarità specifiche, questo lo rende unico, quindi chiaramente non è possibile replicare la stessa identica esperienza altrove. Il modello invece, laddove opportunamente supportato dal tessuto in cui è inserito, potrebbe avrebbe un ampio margine di sviluppo.

C’è potenzialmente spazio per esportare quello che potremmo definire un vero e proprio modello di “festival all’italiana”, in cui la valorizzazione del territorio unita alle attività esperenziali della formula festival possa inserirsi in un tessuto produttivo culturale dinamico. Ma torniamo al punto di partenza: non si può pensare di agire nell’indifferenza più totale, perchè ci si schianterebbe subito contro limiti burocratici, logistici e infrastrutturali concreti. Serve capacità innovativa, propensione ad investimenti culturali oculati e apertura ai mercati esteri.

Leave a Reply