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Interpol, “Turn On the Bright Lights”. Non serve aggiungere altro

By marzo 5, 2020 No Comments

Turn On the Bright Lights ha quasi 20 anni eppure, per tutto il tempo, è rimasto lì, scolpito nella pietra a imperitura memoria. La storia del primo disco degli Interpol è apparentemente un racconto perfetto. Quattro musicisti (Paul Banks, Daniel Kessler, Carlos Dengler e Sam Fogarino) si incontrano a New York, poi fanno un bell’album e hanno successo. Basta guardare bene l’anno di uscita, però, per accorgersi del contesto in cui tutto prese forma: un 2002 pericolosamente vicino all’11 settembre del 2001.

La Grande Mela aveva appena assistito da vicino a un evento in grado di stravolgere il corso della storia a livello mondiale: il crollo delle Torri Gemelle. New York, la città viva per eccellenza, si trovò a fare i conti con uno stato d’animo mutato, estremamente pensieroso. Dovette riorganizzare il modo di interagire con se stessa e con gli altri.

Le canzoni furono scritte prima dell’11 settembre ma, seguendo le trame di un destino ben organizzato, veicolarono il messaggio perfetto. Il disco si inserì in un cruciale vortice di emozioni collettive, riuscendo – quasi in modo fortuito – a incarnare lo spirito di un’epoca. Il legame tra gli Interpol e la città di New York è sempre esistito e sempre esisterà. È viscerale e profondo.

Con la pubblicazione di Turn On the Bright Lights la band gettò le basi per qualcosa di importante, offrendo un’eredità raccolta da tanti. La critica fu – ed è tuttora – concorde nell’acclamarlo. In tanti fecero paragoni con i Joy Division, creando ponti con il passato e accostando la figura di Paul Banks a quella di Ian Curtis. Entrambe le band brillano nella loro oscurità, si muovono in una realtà in cui c’è spazio per pochissima luce, giusto quella che serve.

“Surprise sometime
Will come around”

L’esordio degli Interpol è stratificato, riflessivo e profondo. I testi sono pervasi da una forma di incomunicabilità che deriva da un uso delle parole a tratti arbitrario. I concetti sono detti e non detti, palesati, ma subito nascosti. Da ascoltatore, ti ritrovi vagamente confuso, provi a spostare i segni di punteggiatura, ti immergi con tutto il corpo nella lettura. Ti scervelli ma, alla fine, ti arrendi e finisci per dare alle parole il significato che ritieni più opportuno. Andrà bene lo stesso.

I testi criptici sono da sempre un tratto distintivo della band, che si pone con una forma di pacato distacco nei confronti del mondo circostante, adoperando una gentile ed elegante riservatezza. Gli Interpol si muovono all’interno di un intenso sogno in bianco e nero, colorato da pochissimi dettagli rossi, vividi e invadenti. Vivono nella copertina di Turn On the Bright Lights, iconica nella sua essenzialità. Quella copertina, diventata così rappresentativa di un intero universo, nasconde una storia che non può non essere raccontata. Al fotografo Sean McCabe fu chiesto di collaborare per la sua realizzazione e lui, che ai tempi non sapeva praticamente nulla della band, propose una sua foto scattata in un teatro di Londra. Ancora una volta, come quei testi scritti nel modo esatto prima che la storia facesse il suo corso, il destino aveva fatto sì che tutti i pezzi si incastrassero.

La formazione originaria degli Interpol costituisce un unicum fondamentale per la riuscita del disco. Ognuno fa la sua parte. Il ruolo del basso di Dengler fu talmente determinante, da farlo scherzare su un titolo alternativo: avrebbe voluto chiamarlo “Celebrated bassline of the future”. Quello scherzo dimostra – pur nella sue dimensione egoistica – quanto il concetto di “gruppo” musicale potesse essere valido.

“You’ll go stabbing yourself in the neck”

L’ascolto di Turn on the Bright Lights pretende la massima attenzione. È un racconto struggente, che ti lascia con il cuore spezzato. Comincia con le chitarre immerse nel riverbero di “Untitled”, un brano che era stato originariamente pensato soltanto per aprire i live, come intro. La narrazione dell’album segue un percorso ben delineato, rivelato da “Obstacle 1”: c’è la chitarra di Kessler a indicare la direzione, sostenuta da quella di Banks, che con la sua voce lascia una firma inconfondibile.

“NYC” è una ballata ragionata, che disseziona le emozioni – tra echi e riverberi – alla ricerca di una città (“The subway is a porno, the pavements they are a mess”). La stessa città si espande in “PDA”: per i primi tre minuti la canzone crea una sua dimensione, fatta di doppia chitarra, batteria e una fluida linea di basso. Poi si prende una pausa e riparte, lasciando sotto i riflettori soltanto la chitarra.

“Hands Away” rimane sospesa in aria, accennata e leggiadra, rimanendo tra gli echi di una malinconia comprensiva. Intesa alla maniera degli Interpol, la malinconia è un’occasione per guardarsi intorno e riflettere, approfondire e scoprire. L’importante è continuare a camminare, in compagnia di quella città che ti scruta, nascosta, così come scruta la Stella di “Stella was a diver and she was always down” (“When she walks down the street, she knows there’s people watching. The building fronts are just fronts to hide the people watching her”).

Sei ascoltatore e protagonista, testimone di una confessione a cuore aperto lunga 11 tracce, fatta di musica e parole che a tratti esplodono, come in “The New” (“I can’t pretend I need to defend some part of me from you”). Con queste premesse, il commiato di Turn On the Bright Lights non poteva che essere solenne: “Leif Erikson”, che prende il nome da un impavido viaggiatore, è la traversata alla fine di una tempesta (“I’ll bring you when my lifeboat sails through the night”).

Così si chiude un album che ti ha dato per tutto il tempo la sensazione di non aver capito qualcosa. È un po’ come un film che finisce male, ma che fino all’ultimo momento ti fa credere che tutto andrà per il meglio. Come un libro che sai di dover rileggere più di una volta. Come riuscire ad arrivare a casa un secondo prima che inizi a piovere. Non è un disco, è un colpo di fortuna.

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