Throwbacktime

White Album

By dicembre 18, 2018 No Comments

Non so quanti di voi si siano accorti che è appena passato il cinquantesimo anniversario dell’Album Bianco dei Beatles. Certo, tra cofanetti multipli, registrazioni quasi inedite delle outtakes (una parte erano già state anticipate nella serie Anthology), vinili, cd, cappuccino, cornetto e un bicchiere di minerale, di sicuro non è stato troppo difficile.E quindi, forse sarebbe superfluo parlarne, ma siccome la rubrica è questa, mi sa che vi dovete sorbire l’ennesima lezioncina, anche se in realtà ci sarebbe poco da aggiungere. Ma tant’è.
Ormai è risaputo che il 1968 è considerato, a torto o ragione, come l’anno simbolo di radicali cambiamenti, sociali e non. È chiaro che il vento di questo cambiamento investe anche la musica.
Basti pensare che l’album dei Beatles, si trova quasi nella posizione di vaso di coccio, tra vasi di ferro quale White Light/White Heat dei Velvet Underground, Astral Weeks di Van Morrison, il pirotecnico Electric Ladyland di Jimi Hendrix, Strange Days dei Doors. A fine anno, sarà il turno dei Rolling Stones, con la pietra miliare Beggars Banquet, il primo disco in cui si tolgono finalmente di dosso l’ombra dei colleghi di Liverpool.

E i Beatles? Beh, loro non se la passao tanto bene. La morte di Brian Epstein, il loro manager, il loro fratello maggiore, la loro tata, è stato un duro colpo da assorbire. Il progetto Magical Mystery Tour, specie il film, non ha convinto tutti, anzi c’è chi parla già di parabola discendente.
Il soggiorno in India, presso l’Asham Maharishi Mahesh Yogi, è stato solo un piacevole intervallo, ma i problemi non mancano. La creazione dell’etichetta discografica Apple, non ha facilitato le cose e alla fine si rivelerà un grosso errore. E poi ci sono loro.
McCartney, si ritiene il garante del gruppo e sotto certi aspetti anche l’unico leader. Cosa che dà molto fastidio a Lennon, che si è appena separato dalla moglie dopo avere conosciuto Yoko Ono, e ha iniziato un nuovo percorso artistico e musicale. I due vecchi compari, non è un mistero, non si sopportano più e le liti sono sempre più frequenti.  George Harrison cova risentimento e rancore, in quanto vorrebbe avere più spazio compositivo, ma le sue canzoni vengono regolarmente cassate dalla premiata ditta. Ma il momento della rivalsa sta per arrivare.
Ringo, invece, subisce tutto in silenzio, ma alla fine anche lui esploderà, tanto da arrivare ad abbandonare le registrazioni anzitempo, furente dopo l’ennesima prevaricazione del despota McCartney che per alcuni brani non lo ritiene abbastanza bravo, suonando lui al posto dell’amico. Ci vorrà tutta la diplomazia di Harrison e un tappeto di petali di fiori a coprire la sua batteria in sala di incisione per farlo tornare.
Ah, dimenticavo, c’è anche Yoko Ono. John la vuole presente durante le registrazioni e lei non si fa pregare, anzi interviene spesso anche nelle discussioni. È inutile dirsi che la sua presenza non è gradita – anzi proprio non la possono vedere – da parte degli altri componenti del gruppo, Paul in testa.
Il White Album è anche il primo disco non prodotto interamente da George Martin. Liti e tensioni hanno stancato anche lui, quindi a un certo punto preferisce togliere il disturbo e lasciare spazio ai giovani: Chris Thomas, Geoff Emerick, Ken Scott, nomi che poi ritroveremo all’interno delle copertine dei migliori album degli anni settanta. Tornerà poco prima della fine delle sessions, ma non sarà mai convinto del progetto. Dovremo aspettare Abbey Road per ritrovarlo al posto di comando.
Ma è giunto il momento (ahimè per chi scrive) di analizzare il disco. Quel galantuomo di Martin, con il suo innato senso della diplomazia, affermò “C’erano alcuni pezzi davvero splendidi e altri che forse non lo erano altrettanto”, rafforzando l’opinione che due dischi erano troppi in relazione al materiale disponibile.
E certo la discontinuità, la mancanza di una linea di galleggiamento unica è il dato che emerge dal disco. Privi di un freno inibitore quale poteva essere la presenza di Martin, consapevoli dei propri mezzi, anche troppo, Lennon e McCartney iniziano una gara personale per dimostrare chi tra i due sia il più bravo.
Anche il fatto che l’atmosfera negli Air Studios, sia diversa dalle precedenti occasioni si ripercuote sulla qualità del lavoro. Le altre volte, come si può ascoltare dai chilometri di nastri conservati, era un continuo scherzare, punzecchiarsi, trovare soluzioni in corso d’opera. In questo caso, ed è spesso il caso di McCartney o di Lennon con Yoko, ci troviamo, per alcuni pezzi, davanti un lavoro individuale che esclude il resto del gruppo.
Quindi non si può non pensarla come Martin, e come altri illustri critici – anche italiani –  quando dicono che uan is megl che tu, forse un solo disco si sarebbe tradotto in un blocco coeso e molto più appassionante.

Ma quali pezzi escludere? Eccoci alle dolenti note.
Le due Honey Pie, anche la Wild, sarebbero comparse in un qualche album solista di Macca, con buona pace sua e di Martha, il suo cane, che forse avrebbe fatto un miglior figura in un disco di filastrocche per bambini. Ci saremmo risparmiati l’insopportabile vocina di Yoko Ono in Bungalow Bill e magari avremmo potuto sacrificare Ob-La-Di Ob-La-Da per la versione elettrica di

Revolution 1, lasciando la versione acustica per i Past Masters.
Revolution 9, avrebbe fatto la sua figura su Two Virgins, il primo album a nome della ditta Ono -Lennon con buona pace di chi in quegli otto minuti e diciassette secondi, fa una telefonata alla fidanzata e torna solo dopo che è finita.

E cosa sarebbe rimasto dentro? Sicuramente il pastiche Beach Boys – Chuck Berry, Back in USSR aprirebbe sempre le danze e non potremmo rinunciare a gemme come Dear Prudence, Sexy Sadie, Helter Skelter. Per non parlare della gloriosa cavalcata di Eric Clapton in While My Guitar Gently Weeps di George Harrison, e avremmo sempre versato una lacrimuccia per il ricordo della madre di Lennon in Julia. E poi chi non chiuderebbe il disco senza la splendida performance da consumato crooner di Ringo Starr, in Good Night?
Per fortuna che esistono i lettori CD con la funzione Program, così ognuno di noi può ascoltarsi il proprio White Album personale.
Un’ultima citazione merita l’art work della copertina, che in piena sbornia psichedelica si presenta nella sua veste immacolata, con il nome della band appena visibile (tra l’atro per chi l’avesse dimenticato è anche il titolo dell’album). Un minimalismo che sa molto di avanguardia, quasi un Peter Saville ante litteram.
A pochi mesi di distanza, i quattro si sarebbero ritrovati per Let it Be, con la celebre produzione Spectoriana, voluta da Lennon, che appesantisce abbastanza il risultato. Meglio Abbey Road, il definitivo canto del cigno, con i Golden Twins in stato di grazia, benedetti ancora una volta dalla superba opera di Martin. L’ultima volta.
Intanto il sessantotto era finito. In un piccolo scantinato, un nuovo gruppo dal nome glorioso. New Yardbirds, stava finendo le ultime prove. Il nuovo anno li vedrà andare in giro con un nome nuovo e un sound mai sentito fino allora. Stanno per arrivare i Led Zeppelin, e con un anno di anticipo finiranno gli anni sessanta, il rock perderà la sua verginità e la musica non sarà più la stessa.