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Nightclubbing #16: Ivan Della Nave, Les Rêveries du promeneur solitaire

By dicembre 5, 2020 No Comments

Guardiamoli questi monti

perché le montagne non sono mai immerse nella stessa

luce

perché noi non andiamo mai nella stessa direzione

guardiamoli questi monti

monti che rilucono turchesi

monti di alberi verde cupo

seguendo i contorni di nuvole tinte a inchiostro

puoi voltare le pagine della loro storia

quella ascoltata ieri

quella ascoltata trentasette anni fa

dicono che i monti la ricordino perfettamente

[…]

Park Kyongmi, Hanguge 2015

Les Rêveries du promeneur solitaire, le fantasticherie del passeggiatore solitario, è il titolo di un libro incompiuto, pubblicato postumo, di Jean-Jacques Rousseau, dove vengono raccontate, con toni a tratti anche buffi, sempre introspettivi, delle camminate campestri, cariche di riflessioni, di considerazioni, il tutto in un registro accessibile, modesto, nell’accezione migliore che il termine offre. La montagna ha una dimensione mistica e sacrale, è terreno carnale di scontro con un reale così concreto da graffiare il cielo, allungare le notte ed inquadrare il tempo come fosse un’istantanea. Se penso alla montagna, da palermitano, penso a qualcosa che mi sento addosso, senza poi davvero conoscerla, la neve per noi è un miraggio, così il freddo è raro e quando arriva puntualmente finisce sempre per sorprenderci. Dopo aver parlato con Ivan Della Nave, rifletto sulla montagna e mi rivolgo a La Montaña Sagrada di Jodorowski, acido lisergico assunto a mezzanotte, dove la suggestione è uno Zarathustra onirico che parla di corpi, evoca cieli azzurri e mucchi di ossa candide.

***

Ivan Della Nave ha uno sguardo trafitto dalla sua stessa serenità, le sue parole serafiche, gentili, fatte a mano come la maglia, coi piedi poggiati sul braciere, sono un bicchiere di latte caldo col miele al mattino, in una giornata invernale. Ivan vive in Valtellina, dove la valle guarda serena la montagna e ospita generosamente la gente, una valle che mi viene raccontata minuziosamente, tanto da farmi immaginare una lingua di terra di un nero scuro, spumoso, puntellata da piccole cittadine e paesini: “Il nostro territorio lo penso sempre in orizzontale, puoi andare avanti e indietro, devi passare sempre dagli stessi punti, io abito quasi al centro”. Ivan è un fotografo, un ritrattista dal gusto elaborato, carico di suggestioni ed il titolare del Louis Armstrong Lounge Bar, uno storico bar valtellinese, che Ivan, ed inizialmente suo fratello, ha riportato in vita: “È capitato un po’ per caso. Parlando con mio fratello durante un viaggio verso Zurigo, si è palesata la possibilità di rilevare questa attività e abbiamo deciso di tentare. Così rientrati ad Ardenno abbiamo preso il bar e l’abbiamo trasformato in quello che ho sempre sognato esteticamente: un lounge bar con luci rosse, soffuse, statue, chincaglierie. Abbiamo osato e devo dire che i risultati c’hanno dato e ci danno ancora ragione, al netto di questo 2020 tremendo”. L’attività del Louis Armstrong Lounge Bar anima la notte valtellinese, il posto, osservato da fuori, dai ritratti, dalle fotografie, sembra la scena di un sogno lucido alla Twin Peaks: tessuti pesanti, tappezzerie morbide, echi immaginari di musica jazz, di swing, avventori della porta accanto, dalle facce più che espressive, cristalleria adatta ad ogni drink ed un’atmosfera che racconta l’anima di chi gestisce il locale. “Il Lounge è nato un po’ come un gioco, ma, una volta messe le mani in pasta, ho capito che era quello che volevo fare nella vita, creare un mio mondo, un concept, tanti piccoli salotti, dove accogliere la gente come fossi a casa mia. Ho organizzato lo spazio con delle sedute basse, a volte solo cuscini, voglio offrire un luogo con un carattere ben preciso, uno stile ben identificato, che mi rispecchi. Riprendere un’attività storica non è mai facile, mio fratello, dopo aver avviato l’attività con me, ha lasciato: gestire il bar, organizzare un cartellone di eventi, facciamo concerti, djset, e tutto quello che ci sembra possa aggiungere qualcosa in linea col nostro stile, curare la linea del bar, offrire un servizio cordiale, ma anche impeccabile, è per me motivo di grande impegno ed orgoglio. Specialmente per il fatto di farlo a casa”.

Ivan è nato e cresciuto in Valtellina: “Sono nato qui e ho deciso di vivere e lavorare qui. Mi piace la montagna, la valle, mi restituiscono delle sensazioni uniche, mi permettono di stare a contatto con la natura, con la terra. Una realtà molto piccola dove trovi sotto casa il bosco, il lago, cose che a me danno sicurezza. Inoltre, qui c’è un senso di comunità ed anche di apertura mentale e pace sociale, che altrove non ho incontrato, non sento il peso delle generalizzazioni, delle categorizzazioni. Ho studiato privatamente fotografia, per cinque o sei anni, questo mi ha permesso di avere uno sfogo artistico, di cui sentivo il bisogno. In famiglia sono sempre stato considerato quello eccentrico, estroverso, attratto dal mondo dell’arte”. Un’attrazione verso l’arte che Ivan esercita con i suoi scatti, le fotografie di Ivan sono dei ritratti e, molto spesso, degli autoritratti, “Vado un po’ a periodi, lo confesso”, in cui viene ricostruita, con grande metodo, quell’atmosfera estetica, quella corrente artistica, cui Ivan è interessato in quel dato momento. Sono fotografie dal gusto pop, alcune dai richiami rococò, altre minimali, tutto è pensato, ogni centimetro di pelle ritratta, ogni sfumatura, restituisce il lavoro di una piccola equipe: “Quando scatto, prima di poter cominciare con la macchina fotografica passano delle ore, ho bisogno di avere con me qualcuno che si occupi dei capelli, del make-up, degli abiti. La luce deve essere perfetta, cerco sopratutto di parlare con la persona ritratta, di metterla a suo agio, introdurla al mondo che voglio ricreare e, allo stesso tempo, di farmi consegnare un’immagine autentica, delle emozioni spontanee. È difficile, ci vuole tempo”. La fotografia di Ivan è un mondo della riflessione, del pensiero, un tempo ponderato nel quale immergersi, per lasciare esondare i propri pensieri: “Dopo aver scattato, spesso non tocco le foto per giorni, anche settimane, lascio riposare le idee. Poi ripesco il materiale, lo seleziono e comincio a lavorare in post-produzione, soprattutto alle curve di luce e colore. Credo sia fondamentale nella fotografia digitale fare attenzione a queste due variabili”.

Ivan ha spesso scattato fotografie per party, specialmente al Verve, storica discoteca valtellinese: “Ho messo piede la prima volta al Verve tanti anni fa. Penso sia il club del mio cuore. Quando ho cominciato a frequentarlo era una sorta di alternative club, dove veniva suonata musica rock e pop, quelli erano gli anni in cui andava fortissimo Lady Gaga. Il Verve mi colpiva per il suo aspetto multicolore, un enorme open space con il bancone nero, la pista viola, l’ingresso rosso fuoco ed i bagni fucsia, con delle vetrate coperte da tendoni neri, che davano un senso di calore, notturno. C’ho lavorato facendo un po’ di tutto, dal cameriere, all’accoglienza, al fotografo, è un posto magnifico, gestito da persone giovani, aperte, intraprendenti, cui mi sento legato”. Dal Verve, Ivan si fa strada, cominciando a scattare per alcune discoteche di Milano, frequentando tanti luoghi importanti nel panorama del clubbing italiano: “Per un valtellinese è normale scendere a far serata a Milano, così mi è capitato di frequentare spesso il Plastic, che amo molto. Poi devo dire che un posto dove ho lasciato il cuore è l’Atomic, un bar pieno di gente folle, mi piace anche molto frequentare il Toilet, il Qlab, il Glitter. Ho sempre adorato il clubbing e la notte, le feste in cui riesco a percepire un senso, un’evoluzione, che mi facciano sentire coinvolto. Sono particolarmente attratto dai party a tema, il fatto di dover curare la mia immagine e fare una sorta di ingresso in scena è qualcosa che mi stimola molto. Normalmente arrivo in discoteca a metà serata, voglio trovare la pista piena per farmi caricare dalla festa, il genere che amo di più ballare è l’electro-rock. Una volta arrivato al locale mi dirigo al bar, poi una sigaretta e parte la festa. Per me un party deve essere condiviso con gli amici, con le persone che amo. La musica, le luci, mi sembra che diano la possibilità di lasciarsi andare, di essere matti come non possiamo esserlo nella nostra quotidianità, è uno sfogo necessario. Ci sono dei pezzi che mi fanno andare letteralmente fuori di testa, per esempio Intoxicated di Martin Solveig & GTA a me fa dare di matto, ma anche cose molte diverse come i Kasabian”.

Guardando gli scatti di Ivan, è possibile rilevare l’estrema versatilità del suo sguardo, dei suoi ascolti, delle sue influenze. La cosa che sembra tornare è una ricerca, quasi spasmodica, della narrazione emotiva, della ricerca negli sguardi, nelle costruzioni estetiche, di una genealogia sentimentale, di un’educazione alla persona, alla sua fragilità, alla curva cromatica della coscienza di un individuo: “Ho iniziato a scattare con una vecchia Pentax analogica che mi diede mio padre. Per me la fotografia rappresenta non solo un modo di esprimersi, ma anche di accettarsi, un mezzo per trasformare il malessere in qualcosa di positivo. C’è stato un periodo nel quale continuavo a scattare un autoritratto dopo l’altro, era una forma di autoanalisi. Sono attratto dalle persone. Parto quasi sempre dall’ambientazione, i miei scatti sono ritratti ambientati, cerco di muovermi verso la persona, di indagarla, studiarla. Ricerco le sue sensazioni e le mie emozioni, voglio esibire un’espressione non verbale che racconti molto, deve essere tutto spontaneo, non recitato. La mia è una fotografia che vuole sperimentare. Per quanto io mi senta lontano dal mondo della moda, mi sento molto influenzato da Tim Walker, sono poi ossessionato dalla luce in Caravaggio, dai dettagli totali alla Vermeer, dall’illuminazione alla Rembrandt. Recentemente mi sono focalizzato sulla luce butterfly, un po’ da ritratto hollywoodiano anni 40/50, mi piace come riesca a far emergere le labbra, il naso, come valorizzi gli zigomi, le gote”. Ivan, la sua opera fotografica, il suo bar, la leggerezza con cui vive la notte, sono paradigmatiche: è possibile ritrovare, in quella che viene scorrettamente descritta come provincia cupa, gretta, un senso di pace, una serenità ed una libertà tali da poter esercitare il proprio, eventuale, talento fino a crearsi un avvenire, con una forza tale da costituire un esempio per gli altri. Qualsiasi luogo, anche la provincia, la campagna, la montagna, come la periferia, qualsiasi situazione può offrirsi non come una prigione, ma come un sentiero, dove seguire le proprie fantasie, dove acquartierarsi in una posizione da cui trarre vantaggio, ed è evidente che a volte, anche le nostre città possano apparire come la fortezza del deserto dei Tartari, c’è un senso di oppressione e di stanchezza nella folla, che persegue tutti. Non è il caso di predicare un tolstoiano ritorno alla vita rurale, quanto di mostrare come tutto sia possibile per chi getta il cuore oltre l’ostacolo: è la volontà che ci rende umani ed è l’immaginazione che ci costituisce come individui.

Je ne cherche pas à justifier le parti que je prends de suivre cette fantaisie, je la trouve très-raisonnable, persuadé que dans la position où je suis, me livrer aux amusemens qui me flattent est une grande sagesse, & même une grande vertu : c’est le moyen de ne laisser germer dans mon cœur aucun levain de vengeance ou de haine, & pour trouver encore dans ma destinée du goût à quelque amusement, il faut assurément avoir un naturel bien épuré de toutes passions irascibles. C’est me venger de mes persécuteurs à ma manière, je ne saurois les punir plus cruellement que d’être heureux malgré eux.

Oui, sans doute la raison me permet, me prescrit même de me livrer à tout penchant qui m’attire & que rien ne m’empêche de suivre, mais elle ne m’apprend pas pourquoi ce penchant m’attire, & quel attroit je puis trouver à une vaine étude faite sans profit, sans progrès, & qui, vieux radoteur déjà caduc & pesant, sans facilité, sans mémoire me ramène aux exercices de la jeunesse & aux leçons d’un écolier. Or c’est une bizarrerie que je voudrois m’expliquer ; il me semble que, bien éclaircie, elle pourroit jeter quelque nouveau jour sur cette connaissance de moi-même à l’acquisition de laquelle j’ai consacré mes derniers loisirs.

J’ai pensé quelquefois assez profondément, mais rarement avec plaisir, presque toujours contre mon gré & comme par force : la rêverie me délasse & m’amuse, la réflexion me fatigue & m’attriste penser fut toujours pour moi une occupation pénible & sans charme. Quelquefois mes rêveries finissent par la méditation, mais plus souvent mes méditations finissent par la rêverie, & durant ces égaremens mon ame erre & plane dans l’univers sur les ailes de l’imagination dans des extases qui passent toute autre jouissance.

Septième Promenade, 464-465, Les Rêveries du promeneur solitaire, Jean-Jacques Rousseau.

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