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Nightclubbing #13 – Gaetano Marchese, figli delle stelle

By luglio 4, 2020 No Comments

Avant-propos

Dodici settimane fa nofunzine.it ha avuto la bontà e la follia di affidarmi questa piccola rubrica settimanale che ho avuto il piacere di curare, ospitando persone con cui ho scelto di dialogare per rubare un po’ di saggezza, di mestiere e di bellezza.

Adesso è arrivato il momento di tornare a quella che spero riprenda ad essere la mia occupazione primaria: la musica.

In quest’ultimo articolo, l’intervistato ed il lettore non me ne vorranno, mi sono lasciato andare a qualche divagazione ulteriore sullo stato delle cose in questa Capitale de la Douleur, che è Palermo, la casa amatissima a cui non possiamo che tornare spogliati ed assetati d’amore.

Da ultimo, vorrei ringraziare: tutti quelli che hanno letto queste mie modeste parole in questi tre terribili mesi di emergenza COVID; tutti quelli che si sono prestati a queste interviste e tutti quelli che con i loro preziosi consigli e con tanti suggerimenti ed opinioni critiche hanno rivisto e diretto questo umile, e finanche inutile, lavoro che è stato Nightclubbing.

Grazie a Luisa Cassarà per la gentilezza e la disponibilità sempre mostrata, a Roberto Cammarata per avermi spinto con parole semplici e puntuali a riprovare a scrivere, a Fabrizio Milazzo per essere stato, come sempre, il contraltare di un confronto spero fecondo, e grazie soprattutto ad Angelo D’Aleo per tenermi in piedi, supportarmi ed anche sopportarmi.

(Magari) torneranno i prati!

L’égalité des sexes

Tes yeux sont revenus d’un pays arbitraire

Où nul n’a jamais su ce que c’est qu’un regard

Ni connu la beauté des yeux, beauté des pierres,

Celle des gouttes d’eau, des perles en placards,

Des pierres nues et sans squelette, ô ma statue.

Le soleil aveuglant te tient lieu de miroir

Et s’il semble obéir aux puissance du soir

C’est que ta tête est close, ô statue abattue

Par mon amour et par mes ruses de sauvage.

Mon désir immobile est ton dernier soutien

Et je t’emporte sans bataille, ô mon image,

Rompue à ma faiblesse et prise dans mes liens

(da Mourir de ne pas mourir, p. 51, Capitale de la douleur di Paul Eluard, pubblicato da Gallimard, Paris, France, 1926)

Nota ON

Villaggio Santa Rosalia, un pomeriggio di giugno:

una Seat Ibiza truccata sfreccia lungo la strada, lasciando l’eco fortissima di musica dance neomelodica, nell’aria c’è odore di pesce fritto fituso, il caldo umido fa esalare dall’asfalto puzza d’erba marcia, sette anziani, seduti su una panchina davanti ad una statua simil bronzea della Madonna, parlano di Mario Merola in concerto a Palermo negli anni ‘80, il fruttivendolo si è addormentato sulla sdraio dietro la sua bancarella desolatamente semi-vuota, quattro ragazzini giocano a pallone a centro strada urlandosi contro varie ingiurie, una signora sulla sessantina, con la mascherina, dice sommessamente alla figlia “Nino c’è” e punta fiera, dritto davanti a sé, un uomo corpulento.

Un micro-mondo serrato da tanti castelli, prossimo al centro storico, che si estende appena fuori dalla nobiltà cadente di via Maqueda, un quartiere alla fine tranquillo, sonnacchioso. Strade su strade di palazzoni e caseggiati popolari. Non una libreria, non un cinema, non un negozio di dischi, solo panifici, farmacie, supermercati e, da qualche anno, numerosi compro oro e centri scommesse. Il Villaggio Santa Rosalia non ha monumenti, giusto un paio di chiese nuove, basta così: è un’enorme distesa di cemento armato fresco, solo questo. Eppure questo quartiere parla, ama, scrive, questo quartiere vive, in questo quartiere abitano tantissimi bambini, dopo Mezzomonreale-Villatasca, è il quartiere con la più alta concentrazione di minori residenti in città, in questo quartiere resistono le ossa polverose di tantissimi anziani, che sono la memoria più preziosa e la forza silente della nostra società.

È come se nel quartiere mancasse quello che sta nel mezzo, come se le forze vigorose e giovani della nostra umanità abbiano abbandonato al nulla il Villaggio. È un quartiere di matrone, di chiasso, di un mercato rionale che è una vera vucciria. Crescerci, viverci, abbandonarlo e poi recentemente riabbracciarlo, significa descrivere una parabola che è un romanzo famigliare. Questo quartiere non è arrabbiato, riposa e basta, è una periferia asciutta, discreta, carezzevole.

Quello che amo di questo quartiere è un placido senso di prevedibilità di tutto ciò che succede, chi lo abita sa esattamente cosa ne sarà del Villaggio nei prossimi dieci anni, la differente ripetizione del nulla. Il Villaggio Santa Rosalia è chiuso a sud-ovest dalla valle nera e fetida dell’Oreto, col Ponte Corleone che è un inno alla fatiscenza di quegli anni Settanta, che sono stati un continuo e costante stupro e saccheggio edilizio, forse anche morale, di molto di ciò che di bello e armonioso c’era in città: il sacco di Palermo.

Una volta il quartiere era una distesa di campi, costellati da casolari di mezzadri, su cui dominava una villa signorile, le strade erano trazzere, la luce e la fognatura non c’erano. Oggi vaghe stelle dell’orsa coprono carcasse di auto bruciate, ossa di animali, cumuli fumanti di munnizza, puntinismo: in realtà il grosso è quella normalità cittadina fatta di servizi fatiscenti, ma alla fine vivibili. A nord-est il quartiere viene bloccato dalla cittadella universitaria, un rottame chiuso e confuso che parla a se stesso di discipline ormai mancate, se l’università abbattesse le mura che la proteggono (e addormentano) forse finalmente svolgerebbe davvero quella funzione di integrazione sociale per cui è stata concepita; a nord-ovest ci sono, in rapida successione, l’enorme Ospedale Civico, circondato da graffiti e muretti screpolati, l’ospedale Policlinico, piccola alcova accademica, il cimitero di Sant’Orsola, dove resta la chiesa del Santo Spirito, sul cui sagrato ebbero inizio i Vespri Siciliani, “Se mala segnoria, che sempre accora li popoli suggetti, non avesse mosso Palermo a gridar: Mora, mora!”, tutto costeggiato dalla strada ferrata.

Il Villaggio si divide in tre grosse macro-aree: Medaglie D’oro a sud, enormi palazzi di edilizia popolare, ammassati come se non rispettassero la loro stessa fila; al centro San Raffaele Arcangelo, palazzine più signorili, con qualche portierato, popolate da professionisti, bottegai, professori universitari, medici, studenti fuori-sede; a nord, infine, Montegrappa, casette piccole di due, tre piani al massimo, indipendenti, spalmate su quattro vie parallele, Monfenera, Enrico Toti, Montegrappa e Piave, tutte memorie della prima guerra mondiale, tutte abitate dal nucleo indigeno del quartiere, piccoli operai e contadini di una zona originariamente rurale.

Su via Piave, a pochi metri dalla mia vita, qualche anno fa, è nato e cresciuto Gaetano Marchese: “Crescere al Villaggio è stato bello. Mio nonno era parte attiva della sezione locale del PCI, ricordo che portava spesso me e mia sorella su quello che oggi è un enorme e trafficatissimo stradone di cemento, via Ernesto Basile, lì aveva un piccolo appezzamento di terreno, dove giocavamo mentre lui sgobbava. Quando ero piccolo avevano appena cominciato a costruire l’università, poi arrivò l’edilizia selvaggia e tante promesse non mantenute, ricordo bene le lotte per ottenere la scuola media di quartiere, che poi fecero, e ricordo ancora quanto mi divertivo a stare per strada con gli altri bambini del quartiere dalla mattina alla sera. Mio nonno materno aveva una piccola bottega di alimentari, mentre lui stava nel retro, andavo a rubare le chewing-gum Las Vegas, un’infanzia di marachelle bonarie, un tempo felice, non ci mancò mai niente”.

Gaetano Marchese ha la faccia antica, un palermitano spuntato fuori e sempre radicato nella terra. Simpatico, affabile, dai modi cortesi, da marchese, le mani grandi, fatte per lavorare e lottare, una diffidenza dissimulata alla maniera nostra, siciliana, con qualche piccola battuta e con tanta ironia, di Gaetano, delle sue parole, resta impresso un realismo fatto di eventi messi in fila con semplicità, il racconto di Gaetano è evenemenziale, tutta sostanza, tutti numeri, tutta carne, non c’è brodo, non c’è fumo, non c’è spazio per alcuno sciocco vantarsi, Gaetano è Gaetano e riempie la stanza, lo fa mentre siamo seduti dentro la sua creatura prediletta, Exit, l’unico locale dichiaratamente gay della città: “Vedi, il locale è pensato come un vicolo di Palermo, entri e giri l’angolo, ti trovi i graffiti, le icone, le insegne al neon dei vecchi negozi anni ’80” ed è così, Exit, ad osservarlo bene, è un gioiellino, illustrato da Gaetano assume poi il fascino dei ricordi, ogni quadro, ogni chiodo, del locale parlano di una persona, di un pezzo di vita, di una serata.

“Da giovane cambiai un paio di istituti superiori, fino a stabilizzarmi nei miei studi all’Alberghiero. Ero e sono appassionato di cucina, grazie alla scuola feci anche dei viaggi al nord, che furono molto interessanti. Il mio primo impiego fu presso una pellicceria su via Principe di Belmonte, pieno centro chic, un mondo lontanissimo dal mio. Facevo lo steward e guadagnavo 70mila lire a settimana, che per l’epoca erano una bella cifra, parliamo dell’inizio degli anni ’80. Mi piaceva quel lavoro, quell’ambiente e mi feci notare.

In azienda vollero premiarmi, così mi diedero la possibilità di aiutare ad organizzare uno dei défilé che si svolgevano ad inizio stagione, era a Palazzo Butera e sfilava per noi il cast de La Piovra, che per l’epoca era una cosa incredibile! Era una città diversa da oggi, più buia, oscura, dove però si facevano incontri interessanti di notte e di giorno, c’era un fermento diverso, giravano anche più soldi.

Il mio sogno era fare cinema, volevo andare a Roma a sostenere il concorso per il Centro Sperimentale di Cinematografia, non ci credetti fino in fondo, non fui supportato e questa cosa non avvenne mai. Mi davo comunque molto da fare a Palermo, così entrai in amministrazione in pellicceria, ci lavorai fino al 1995 e fu molto bello. Erano anni in cui si facevano delle feste bellissime, in casa specialmente, ed in cui cominciavano ad organizzarsi nei locali i primi party gay friendly”.

Gaetano incontra tante persone e, girovagando per la città, stringe amicizie che lo accompagneranno per una vita: “Una persona davvero indimenticabile è Vanni, che molti conoscono come Vanni Grilli. Vanni è stato avanguardia in questa città, organizzava feste ed eventi e quando c’era lui si era sempre oltre, era grandioso, una persona che porterò sempre nel cuore e che purtroppo non c’è più. A casa ho un cavalluccio marino che mi ha regalato, un po’ kitsch, stravagante, esagerato, colorato, come Vanni, ci tengo tantissimo”. Nel 1995 Gaetano prova la sua prima avventura imprenditoriale: “Mi proposero di collaborare all’apertura di un nuovo ristorante a Bagheria, il Tamara, venendo dall’Alberghiero era qualcosa che mi stuzzicava, così decisi di accettare. Tappezzammo la città di flyer con un occhio di donna e la scritta Tamara, il locale dentro sembrava un boudoir dai colori seducenti, all’inizio fu un successo, poi penso che la gente non riuscì a metabolizzare un concept così forte, molto Versace, e chiudemmo”.

Senza farsi abbattere dalla chiusura del Tamara, Gaetano decide di buttarsi in una nuova avventura. “Due miei amici ballerini del Teatro Massimo mi segnalarono che c’era questo localino che si affittava all’angolo tra piazza Sant’Oliva e piazza San Francesco di Paola, lo andai a vedere e mi restituì subito una vibrazione positiva. Così decisi di costituire un’associazione, che chiamai It, il terzo pronome personale soggetto inglese, quello neutro, nonché il nome di un locale che avevo visto ad Amsterdam e che mi piaceva, era il 1996 e non c’erano in quel momento locali gay a in città, pensai che fosse giusto dare questo indirizzo alla mia nuova attività, fare qualcosa per la mia comunità”.

In quel 1996 a Palermo aprirono l’It di Gaetano Marchese ed I Candelai, mica male. “Subito, non so bene come, si sparse la voce che sarebbe stato un locale dichiaratamente gay. Mentre stavamo ultimando i lavori di ristrutturazione veniva gente a chiederci quando avremmo aperto, c’era un’attesa spasmodica nell’aria. La nostra avventura cominciò in ottobre, era la primavera di Orlando, il periodo dei caffè concerto, nell’aria c’era una vibrazione positiva. Ottenemmo sin da subito un successo clamoroso.

Il venerdì ed il sabato si ballava, il sabato c’era anche lo spettacolo delle Crepes Zozzettes, La Santa, Johnny La Sicca e Gloria Darling, che parteciparono anche al film di Aurelio Grimaldi, La Donna Lupo, quando si ballava il DJ spesso, per la tanta, troppa, gente doveva mettersi sul soppalco che avevamo allora e fare capolino con la testa da una botola, una cosa folle! Venne a trovarci Franco Nulli e ci portò in televisione ad Opinion Leader, una trasmissione locale seguitissima in quegli anni, venne anche un inviato di Michele Santoro, che in quegli anni mi pare fosse passato a Mediaset, che fece un pezzo su di noi.

Non era tutto rose e fiori e basta chiaramente, il rapporto col quartiere e con la chiesa specialmente, che abbiamo di fronte, fu difficoltoso all’inizio, poi imparammo a conoscerci, ci fu qualche episodio spiacevole, ma devo dire che, tirando le somme, come si suol dire, mi sono mangiato una fetta di carne, c’ho dormito su, e ho continuato a lavorare andando dritto per la mia strada. Mi sono sempre comportato rispettando tutti e domandando lo stesso rispetto, che è arrivato. Ora il locale è un pezzo di storia del quartiere e con la chiesa il rapporto è eccellente”.

Il successo di Gaetano e dell’It apre al passaggio alla discoteca: “Nell’aria c’era fame di una vera e propria nostra serata in discoteca, il locale era sempre pieno. Così, nel 1999, soprattutto grazie al mio ex compagno Marcello, decidemmo di cominciare ad organizzare le prime feste gay in un club a Palermo, il Gorky. Marcello è quello a cui devo di più per l’organizzazione e la gestione delle serate, specialmente per il lato artistico, lui è l’artefice di tantissime cose, una colonna di quello che siamo in discoteca e del locale da sempre, non ci sono parole per ringraziarlo per i suoi costanti sforzi. Cominciammo coi venerdì, ricordo che passavamo le notti con Filippo Luna a progettare le grafiche dei flyer a casa sua, era un momento magico. Fu subito un grande successo, che continua ancora oggi che ci siamo spostati al sabato, con gente che viene da Trapani, da Agrigento, dalla provincia di Palermo.

Noi offriamo un divertimento ed un modo di fare feste che si basa sulla leggerezza e sulla voglia di dimenticare le preoccupazioni in discoteca: musica commerciale e tanta animazione, poi io amo molto le luci, gli effetti colorati, gli schermi led, questo tipo di scenografia mi appassiona, penso sia parte integrante di una serata, qualcosa di irrinunciabile. Siamo stati i primi a portare dei gogo-boys a Palermo, abbiamo avuto il piacere di ospitare per anni delle drag favolose come Lady Greg, Kristal Swan, La Mik, La Petite Noir e molte altre, oggi diamo tanto spazio a quella che per me è una cara amica, Erotika, una persona che stimo ed a cui voglio un bene dell’anima.

Il Gorky è diventato Rise Up ed oggi è il Fabric, tanti nomi, tante feste e noi ci siamo sempre stati”. Quando si parla di musica, Gaetano è una persona che riserva belle sorprese “devo dire che amo moltissimo tutto quel pop luccicante degli anni ’80: i Duran Duran, che ho visto live a Palermo, gli Spandau Ballet, poi adoro quella musica un po’ eccentrica italiana, diciamo che Alberto Camerini è un nome che racconta quello che mi piace, infine ascolto tanta roba di altri tempi, per esempio Gilda Giuliani, queste voci pulite della tv in bianco e nero. Se penso a cosa ballerei io, amo la house, ricordo delle serate memorabili con Nunzio Borino al Gatto Nero!”.

Dieci di attività sono tanti in un mondo che corre veloce, eppure Gaetano ha saputo rinnovarsi, affrontare i momenti difficili e rimettersi in carreggiata, e addirittura ora è prossimo ai venticinque anni di quello che è diventato Exit e a cui non si possono che augurare ancora cento decenni di lavoro e gioie “Venerdì 11 Ottobre 2006, l’It, che nel frattempo, dopo un ampliamento ed una ristrutturazione dei locali, è diventato Exit (col magnifico sottotitolo: from your Stereotypes) ha festeggiato i dieci anni di attività. Così abbiamo fatto una stagione di eventi e serate che si è chiamata Exit 10&Love, un nome che c’accompagna ancora.

Nel frattempo ho conosciuto i ragazzi di I Love Tuesday, che organizzavano feste il martedì, ed abbiamo deciso col tempo di collaborare, fino a fonderci ed unire la forze, data la comune visione delle serate. E poi è arrivato il Pride. Il Pride è una delle emozioni più forti che io abbia mai provato in vita mia, mi commuovo a parlarne e credo che quello che significhi il Pride a Palermo sia qualcosa che altrove non è comprensibile, è un’esperienza unica, che dà forza e fa comunità, un po’ quello che tentiamo di fare con l’Exit.

Il mese del Pride e la parata per me sono qualcosa di quasi sacro, che va rispettato per onorare questa comunità e darci forza. Poi, io sono quello che durante le parate sta sempre in tensione perché voglio che tutto si svolga bene, in sicurezza, per il divertimento di tutti, ci sono certe mie foto in cui si può leggere tutta la mia concentrazione solo dallo sguardo, ma fare parte di tutto ciò è qualcosa che amo e quindi questa è una bella tensione, che sperimento volentieri”.

Io e Gaetano Marchese siamo figli di una Palermo non raccontata, non fotografata, presa in giro, a cui gli intellettuali di questa città hanno voltato le spalle per disinteresse, e forse anche perché incapaci di decifrarne il linguaggio, veniamo da una cultura dell’asfalto, dell’ambulante ai bordi delle strade, dei panni stesi ad asciugare al sole cocente di luglio, dei mercati rionali che non sono colorati abbastanza per la televisione nazionale e gli spot per il turismo, ed è per questo che siamo, in una certa misura, fratelli, ci siamo formati sullo stesso cemento arso, raso e desolato, guardando gli stessi palazzi mangiati dall’incuria, crepati dentro e fuori.

Gaetano è andato lontano e ovunque è andato ha fatto bene. Quello che, alla fine, mi sembra gli renda meglio giustizia, sono tutte quelle cose che non ha poi senso riportare letteralmente: il suo sguardo fiero parlando della nipote prossima a diplomarsi all’Accademia di Belle Arti; la cura dei dettagli nell’allestimento e nella ristrutturazione dell’Exit; le premure continue rispetto al suo amatissimo cagnolino; il garbo con cui parla dei suoi ex compagni; la nostalgia che gli bagna gli occhi quando parla di una città perduta e di persone svanite nel tempo; l’abnegazione nel mettere davanti a tutto la comunità LGBT della città col suo locale e con le sue feste. Una questione di fatti bellissimi.

Nota OFF

Palermo è una città di quartieri, quartieri dimenticati, che hanno abbandonato ogni identità propria oltre il loro toponimo, quartieri fuori dal discorso retorico sviluppato attorno al centro storico, un discorso portato avanti dalla classe dirigente della città, una classe gentrificatrice, sinistroide, col portafoglio a destra. Palermo è un harakiri del capitalismo e del patriarcato, una città che ha scelto, a suo tempo, di non scegliere più, di farsi inconsciamente frontiera e capitale di se stessa, di liberarsi, un luogo in cui nelle contraddizioni abita il senso delle cose e dove si aprono spazi felici e possibilità inattese e placidissime.

I quartieri di Palermo: Villaggio, Altarello, Borgo Nuovo, Cruillas, Bonagia, ecc., sono Palermo e sono soprattutto paradigmi diffusi di cosa significhi vivere oggi in una grande città. Mentre Ballarò, il Capo, la Kalsa, sono meravigliose esperienze peculiari, da un quartiere come il Villaggio si può ricavare un’ermeneutica dei soggetti, un’antropologia dello spazio e del paesaggio, una sociologia dell’ambiente, tali da poter generare paradigmi che strutturino modelli di analisi riproducibili e seminali.

I quartieri popolari che contano non sono solo quelli pittoreschi, è un paternalismo culturale infinito quello che tende ad occuparsi solo dei luoghi che può gentrificare e colonizzare con idee ‘smart’, lasciando a posti come il Villaggio, dove la maggioranza della popolazione poi risiede, e dove l’attenzione mediatica, quando c’è, è riservata solo ed esclusivamente a cronachetta da giornali locali, il nulla. Altri luoghi di cui si discute tanto, sono le periferie limite, ma la narrazione messa in atto su posti come lo Z.E.N., lo Sperone, ci dice un po’ la stessa cosa, sono luoghi comuni da spendere quando torna comodo, quando c’è da piantare uno scivolo in un giardinetto abbandonato o celebrare un graffito d’artista, per il resto si è già saccheggiato il tessuto associativo di questa città che lì operava e aveva la propria base, spremendo ogni singola energia delle persone che lo componevano ed è rimasta solo la retorica.

La cittadinanza delle nostre città non è figlia dei nostri centri storici, ma della speculazione edilizia, se non lo accettiamo non potremo mai affrontare alla radice i problemi sociali che c’affliggono. Dobbiamo occuparci di posti come il Villaggio, come Acqua dei Corsari, dobbiamo portare in questi luoghi energie, azioni, possibilità.

Palermo è una città fatta di assi stradali primari che si intersecano: via Maqueda e via Roma tagliano Corso Vittorio Emanuele, il Cassaro; Gaetano Marchese è un asse primario della vita della comunità LGBT a Palermo negli ultimi 25 anni. La comunità ha camminato, marciato, corso, nel solco scavato da locali come l’Exit, da serate come quelle organizzate da Gaetano, a lui va riconosciuto che, insieme a tanti altri, il suo lavoro ha progressivamente emancipato questa città da tanti brutti stereotipi, da tante brutture culturali e sociali.

Il lavoro di Gaetano è un lavoro encomiabile, piaccia o non piaccia, con tutti i limiti che in qualsiasi opera umana possono essere ravvisati, Exit è comunque una luce arcobaleno che si è accesa prima di tante altre e che continua ad essere coraggiosamente illuminata dal lavoro di Gaetano, Marcello e di tutti gli altri che animano il locale e le serate. Se penso a quello che è il Villaggio Santa Rosalia e via Piave, rivedendolo poi giorno dopo giorno, vivendolo, pensare che da qui è partita una storia del genere, di rivendicazione, lotta e libertà, è qualcosa che mi restituisce quella speranza che mi suggerisce solo cose belle, solo nuove stelle, nuove rotte verso lidi fatti di superlativi e gioia.

Gaetano mi ha accolto una domenica pomeriggio all’Exit, abbiamo parlato ore, mi sembrava un vecchio amico, ci siamo abbracciati, lui si è commosso un paio di volte, abbiamo scambiato considerazioni politiche, pettegolezzi, boutades varie, e alla fine mi è sembrato che ci conoscessimo da sempre, siamo figli del Villaggio, di Palermo, del nostro tempo, figli delle stesse stelle.

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