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Nightclubbing #6 – Giovanni Montuori, L’Arte della Gioia

By maggio 16, 2020 No Comments

Giovanni Montuori mi sorride oltre lo schermo che ci divide, siede in un cucinotto dalle pareti bianche, è una sera di maggio, calda a Milano come a Palermo, dietro di lui partecipa alla nostra conversazione il poster di una foto di Herb Ritts. Da qualche mese il mondo vive una nuova cattività avignonese, questa volta diffusa, una situazione limite, di follia, isteria, generalizzata e orizzontale, due mesi che hanno sconvolto la Lombardia ed il mondo. Giovanni, a guardarlo, sembra un po’ stanco ma felice, una montagna di ricci raccolti in una cresta appassionata svettano da carne ed ossa solide, ben piantate a terra.

Giovanni è un DJ, co-fondatore di Brenda Identity, è uno dei fotografi ufficiali di Club Domani, resident party del sabato del leggendario Plastic di Milano, è un consulente digitale e organizzatore di eventi ed è Lina Galore, una delle drag queen emergenti del panorama nazionale, presenza fissa de La Boum, tra le feste queer più rilevanti del venerdì milanese: “Mia madre mi ripete sempre che non ho mai dormito otto ore di fila!”, mi dice.

L’arte della gioia conosce molte strade

Nato a Montoro, un piccolo comune in provincia Avellino, a 18 anni, come tanti, lascia la Campania per Milano. “Vengo da una famiglia media. Ho fatto il liceo classico, penso di aver sempre avuto una vena artistica particolarmente forte, che ogni tanto mi faceva pensare di non aver fatto una scelta coerente con la mia indole, nonostante amassi poi molto quello che studiavo. La letteratura classica, cose come la commedia plautina, mi danno, ancora oggi, tanti input per i miei lavori. Quando ho iniziato a indagare me stesso, la mia sessualità, la mia personalità, è contestualmente iniziato il desiderio di andare altrove.

Avevo realizzato che per essere felice senza ferire le persone che mi volevano bene, dovevo andar via, non perché le persone che mi stavano accanto non avrebbero accettato quello che ero o che volevo diventare, ma perché mi trovavo in un contesto tale che per auto-preservazione, auto-difesa, avevo la tendenza a reprimermi e quindi a fare in modo che la mia sessualità, la mia creatività, non si liberasse del tutto. Per me trasferirmi a Milano è stato salvifico. Col passare del tempo la distanza credo abbia anche aiutato a far si che venissi accettato esattamente per quello che sono, senza dover specificare niente: non ho mai avuto l’esigenza di dire ‘io sono Lina Galore’ alla mia famiglia, ai miei affetti, perché, anche senza il dettaglio della parrucca, dei tacchi e del trucco, io Lina Galore lo sono sempre stato e loro in fondo lo sanno”.

Ci sono molti modi di essere felici, l’arte della gioia conosce molte strade, quella di casa e quella della partenza, della scelta di una nuova dimensione, ce lo insegna Goliarda Sapienza e ce lo ricorda l’esperienza di Giovanni che, trasferitosi a Milano, comincia a studiare giurisprudenza alla Bocconi, un ambiente soffocante che percepisce quasi come una gabbia: “Continuavo a dirmi ‘ce la posso fare’ e facevo 10 esami di fila, poi magari ne sbagliavo uno e mi bloccavo per mesi”. Al secondo anno di università, Giovanni intuisce che il mondo del diritto non fa per lui, che non avrebbe fatto l’avvocato, così, frequentando la nightlife milanese, rimane folgorato dal Plastic.

“È stato il primo locale in cui ho messo piede a Milano, tre o quattro mesi dopo Sergio Tavelli mi ha chiesto di selezionare alla porta della sua consolle chi avrebbe avuto, oltre ai suoi amici, il privilegio di trascorrere la serata House of Bordello in quell’angolo fatato del locale. Era il 2010”. In dieci anni, grazie alla notte, al clubbing, Giovanni comincia a frequentare una scena fatta di persone e personaggi, che nel tempo sono emersi come figure di spicco della cultura e dello spettacolo a livello nazionale: “Ho conosciuto al Plastic Annie Mazzola, facevo il barman all’epoca, lei invece si occupava della porta al party del venerdì, il London Loves, ricordo che Annie era esattamente com’è adesso: una valanga di battute irriverenti e di energia positiva. E già ai tempi mi dicevo: io questa la vedo a condurre un talk!”.

Dalla Campania è emersa un’interessante narrazione della queer culture popolare, urbana, legata a tradizioni ataviche, un racconto che paradossalmente Giovanni ha trovato in Lombardia. “Sebbene il mio comune si trovasse in provincia d’Avellino, la città più vicina, cui poi facevo riferimento per le situazioni cool era Salerno, che era già per me qualcosa di molto diverso dalla mia vita di tutti i giorni, non conosco molto di Napoli. Col mio trasferimento a Milano, ho provato un po’ il rimpianto di non aver avuto il tempo di sviluppare una buona conoscenza della community LGBTQI campana. Mi ritrovo adesso a tornare a casa, quando va bene due mesi l’anno, rendendomi conto che le dinamiche tra le persone della comunità sono familiari tanto quanto quelle che ho cercato e trovato in Lombardia. Ascolto le storie di persone che hanno visto coi loro occhi cose come la figliata dei femminielli e rimpiango di non averle conosciute a suo tempo, quando vivevo ancora in Campania. Ascoltare queste cose per me è una scoperta, è il fascino delle streghe, rimango ipnotizzato da certi racconti”.

Il Plastic appare, dai racconti di chi lavora al locale, come una comunità di persone molto unita e coesa: “Spesso si comincia da clienti, per poi innamorarsi del posto e cominciare a lavorarci, a seconda delle proprie abilità, ambizioni, possibilità, inclinazioni. Se hai nel look, nell’attitude, qualcosa di interessante, capita che tu venga invitato a far parte dello staff del locale”, un ambiente aperto alla feconda contaminazione dei suoi avventori, delle forze migliori delle persone che lo animano.

Nel 2014 Giovanni comincia ad organizzare per il locale Brenda Identity: “Era un party che si faceva tutti i venerdì al Plastic, totalmente a tema anni ’90. Facevo il DJ, mi occupavo dell’allestimento, della direzione artistica, con Filippo Wertmuller e Roger Bi. Due dei miei più cari amici. Filippo è un autentico genio del marketing e della comunicazione, Roger invece un’enciclopedia vivente di tutto ciò che è musica o la riguarda, ha una cultura sconfinata. Nella selezione musicale, parto dalla dance anni ’70, fino agli anni duemila con molto pop e meteore. Mixo con i cd. Mi definirei più un music selector che un DJ, i miei set si focalizzano sulla ricerca musicale, metto a frutto i miei ascolti, cerco di condividerli. Al Brenda Identity suonavo tutto quello che mi veniva in mente degli anni ’90: il rock, il pop, le ballad, le sigle dei telefilm, dei cartoni animati, qualsiasi cosa. Il mio cavallo di battaglia era il jingle di trasformazione di Sailor Moon! Che ho scoperto essere uno dei jingle più mixabili dell’universo, sta bene all’inizio di qualsiasi canzone!

Brenda Identity prende il nome da Brenda Walsh di Beverly Hills 90210. La serata zero fu uno dei venerdì nei quali c’era ancora London Loves in sala grande. C’avevano chiesto di fare una festa a tema anni ’90 in sala piccola. La cosa riscosse subito molto successo così ci chiesero di fare la stagione successiva tutti i venerdì nella sala degli specchi per poi passare nella storica sala JukeBox Hero. Il primo anno è stato una bomba. C’erano dei quadri giganteschi con cui allestivo lo spazio bar oltre al resto del locale, tutto a tema chiaramente, erano sempre protagonisti i personaggi delle serie tv degli anni ’90, mixati al concetto di cartoon, gli allestimenti che ho più amato erano quelli dove proponevo il personaggio di una serie tv ritagliato da un frame di una puntata e messo in un layout completamente fumetto. Per esempio il cane di Settimo Cielo, Happy, che abbaia a Tata Francesca sulla parete di fronte o Laura Palmer che ti invita a fare il bagno. Nella sala grande del Plastic c’è questa pila di televisori dove mandavamo cose come Edward Mani di Forbice, le trasformazioni delle guerriere Sailor in loop, spezzoni dai Simpson. Abbiamo portato avanti Brenda Identity per tre anni ed è sempre andata molto bene, poi gli impegni lavorativi diurni miei e degli altri due organizzatori hanno cominciato a farsi sempre più pressanti, così abbiamo deciso di mettere la cosa in stand-by. Abbiamo fatto una festa di chiusura gigantesca e ci siamo dati l’arrivederci”.

Una finestra artistica chiamata fotografia

Nel frattempo al locale si libera il posto da fotografo del nuovo sabato del Plastic, Club Domani, Giovanni decide di farsi avanti. “Gli anni al bar sono stati forse quelli in cui mi sono divertito di più, però, ad un certo punto, avevo bisogno d’altro, mi stavo un po’ annoiando, volevo qualcosa di più creativo. Ho sempre avuto l’interesse per quella finestra artistica rappresentata dalla fotografia. Negli anni di giurisprudenza, ho anche iniziato a lavorare come consulente digitale per diverse agenzie di comunicazione ed organizzazione eventi.

Ho capito che il mio mondo era quello della comunicazione e dell’arte. Al Plastic sono fortunato perché fotografo cose che mi piacciono. Nelle foto per Club Domani mi sono concentrato sul cercare di restituire quanto più possibile la vibrazione che percepisco della serata, lavorando sui tempi lunghi della macchina, giocando con le luci, con le strobo. È una cosa che mi piace molto, è come se fotografassi due fasi, una sorta di gif ferma, cerco di restituire il movimento del ballo nel momento scattato.

Nel 2020 è difficile trovare una persona fotografata a sua insaputa in discoteca, l’approccio con la figura del fotografo è molto cambiato. Tutti vogliono una foto, le persone amano l’obiettivo, cercano la macchina. Cerco di salvaguardare la spontaneità dello scatto con un compromesso gentile: guidare il soggetto ripreso, con piccoli gesti, verso una situazione che simuli quanto più possibile l’assenza del fotografo, nei limiti del possibile chiaramente. Ho progressivamente allontanato l’obiettivo dalle pareti del locale, indirizzando le persone alla pista”.

Se pensiamo ai party come a dei prodotti culturali, le foto sono ciò che racconta alla gente quel prodotto. Le fotografie di un party sono la memoria, l’immagine, il lascito della festa al mondo. La musica parla e la fa da padrone durante la festa, le foto contribuiscono a raccontare quello che è successo, danno speranza a chi guarda da lontano uno schermo, sono un reportage, una cronaca diretta, che, descrivendo una festa, ne orienta l’estetica, ne suggerisce gli sviluppi. Le immagini che Giovanni consegna di Club Domani e del Plastic sono quelle di ritratti che parlano di queer culture, di feste affollatissime, di corpi che ballano, di trucchi stesi su guance concave, di occhi sbarrati, di opulenza e orgoglio sul dancefloor.

Lina Galore, frammento di un discorso amoroso

Lina Galore ha una genesi amorosa, è il frammento di un discorso amoroso. La mano di Giovanni è stata supportata e coadiuvata dal suo compagno Jury ovvero Sissy Galore. “Parliamo di Lina. Conosco il mio fidanzato, l’ho fatto tribolare, gliene ho fatte di tutti i colori, fin quando poi abbasso tutte le difese perché mi rendo conto che ho davanti una persona con la quale posso crescere sotto tutti i punti di vista. Grazie al suo appoggio, lo devo dire, sono riuscito ad avere quella concentrazione e quella stabilità necessaria a chiudere un percorso tosto come giurisprudenza nel giro di un anno. Finché una sera, era Halloween, un amico organizza una festa a casa sua a tema Sanremo. Jury mi guarda e dice ‘dovresti provare a fare drag, ne usciresti PAZZESKA‘. Così, un po’ per gioco, abbiamo deciso di travestirci lui da Jo Squillo ed io da Sabrina Salerno. Una svolta. Ho cominciato ad interessarmi alla cosa. Nel giro di un anno sono passato da ‘mi travesto tre volte l’anno, per le feste comandate’ a ‘in questa cosa ci credo veramente e voglio farla seriamente’, così è nata Lina Galore.

In realtà Lina c’è sempre stata, ma è venuta fuori quando Jury mi ha detto ‘esploriamo questa cosa insieme’ ed infatti mi son preso il suo cognome, come nelle drag family che si rispettano! Dopo qualche tempo mi ha contattato Alyssa Vandelle, che si occupa dello scouting delle performer che fanno da supporto ai tour delle drag di RuPaul’s Drag Race. Sarebbe dovuta venire ad esibirsi a La Boum Manila Luzon e mi ha chiesto se mi andasse di partecipare. Ero molto felice perché l’ho sempre amata molto, tra l’altro, in quel momento era una cosa grossa, Manila era in forte ascesa, data la recente partecipazione a RuPaul’s Drag Race All Stars 4. Lo spettacolo è andato molto bene, così La Boum si è fatta avanti e ho trovato un teatro dove esibirmi! Ho esordito con Call me di Blondie interrotto da sketch mainstream quasi da meme. Mi sentivo come se mi stessi esibendo a San Siro!”.

Lina Galore ha esordito da pochissimo, è resident a La Boum dallo scorso settembre, eppure, osservando il suo drag, si ha l’impressione che questo personaggio sia qualcosa di consolidato, che esista da sempre. “Io non sono una make-up artist, una stylist, mi esibisco producendo pezzi che sono mix di cose che mi fanno ridere e piangere, di grafiche che mi vengono in testa in un trip fatto chissà quando. Lina non dice cose che Giovanni non pensa, l’ironia di Lina e di Giovanni sono le stesse, la dimestichezza nell’essere Lina è data dal fatto che non mi sforzo di essere qualcosa di troppo diverso da ciò che sono.

Quando è nata Lina Galore, volevo fare ridere, quella era la mia priorità, poi sono andato verso l’idea di un’estetica da pin-up sbadata, una sorta di Goldie Hawn che attraversa le decadi passate in tubini succinti o completi stravaganti. L’immaginario a cui faccio riferimento è molto variegato, guardo molto alle villain dei cartoon, da Amelia la strega che ammalia a Yzma de Le follie dell’Imperatore, personaggi che hanno quei tic, quelle manie che ti fanno sorridere, così come a certe attrici degli anni ’80, come Laura Antonelli, che tra l’altro è uguale a mia madre, Brigitte Nielsen in Fantaghirò, Joan Cusack, ma anche le pin-up degli anni ’40 come la celebratissima Bettie Page, ma anche Jayne Mansfield”.

La scena drag italiana è una scena complessa, articolata e Milano è sicuramente la città più competitiva, per numero e qualità degli artisti che calcano gli stessi palcoscenici, ma anche per la concentrazione di qualità e stili diversi di drag. “La chiave di tutto è il conoscersi, accettarsi. Le drag che mi arrivano con più passione sono quelle da cui percepisco grande naturalezza, che non si stanno forzando ad essere altro da ciò che sono, che stanno dando voce ad una necessità, ad un bisogno. Il mio sogno in termini di personaggio drag, artista performativa, è arrivare a fare stand-up comedy in teatro, spero di riuscire a trovare il tempo di mettermi a studiare e riuscirci”.

La diffusione delle drag, grazie ai programmi ed alla figura di RuPaul, così come alla presenza delle drag nei club, sta attraversando un momento di grande espansione. La drag in discoteca è qualcosa che mostra come non siamo esseri pensabili in termini binari, bianco-nero, maschile-femminile, e come il club sia quel luogo in qui artificiale e naturale sfumano fino a mostrare come la loro dualità sia fallace in superficie e dialettica all’interno.

“Oggi, a volte, drag si diventa per moda. Il concetto del fare drag è molto mainstream, ma una drag dura e funziona se c’è coerenza tra il suo personaggio e la sua estetica, se offre contenuti. Il meccanismo di lettura secondo il quale la drag bella non può far ridere, mentre ciò che è grottesco, laido, fa ridere, è un po’ avvilente. Se inserisci questo meccanismo in un paese, come l’Italia, che a volte manifesta dei tratti omofobi, maschilisti, che tende a semplificare tutto, questo chiarisce il fatto che la commedia fatta da un personaggio drag venga spesso malauguratamente avvertita come macchiettistica. Una drag bella che fa comedy, a prima vista, risolverebbe il problema, invece penso che creerebbe solo un altro stereotipo.

Non siamo culturalmente pronti perché, appunto, l’arte del drag entri in un concetto di cultura mainstream; le voci forti del nostro paese urlano alla collettività che siamo sbagliati, e purtroppo in molti ci credono. Penso che una cosa come Drag Race in Italia non si potrebbe mai fare perché da noi l’arte del drag rischia comunque di essere targettizata nel modo sbagliato, se pensiamo a chi potrebbe essere scelto per fare il giudice in Italia in una cosa del genere, troveresti che saremmo veramente mal rappresentati. È come se in Italia questa cosa non sia percepita come arte, ma come un modo di fare colore, anche soldi, e non c’è niente di più sbagliato. Il drag è un’esigenza personale, artistica. Ho il timore che non siamo pronti ad integrare nel discorso pubblico il fatto che la drag faccia un lavoro artistico, manca una cultura di base. C’è un’ignoranza tramandata, un’intolleranza tramandata, della semantica della cultura queer. Tu non sai niente del mondo, se i tuoi genitori non ti hanno parlato del mondo”.

Una illusione reale

Chiacchierando con Giovanni, sono venuti fuori dei nomi di drag, performer, che mostrano bene come il travestitismo si elevi ad una forma artistica completa e complessa, articolata in forme di sublime del tragico e del comico. Se penso a Stryxia, Stephanie Glitter, La Persia, Santissima Vicky, La Bouttaine, mi sembra di poter scorgere chiaramente la capacità di raccontare quelle istanze presenti nel corpo che, a prima vista, nella quotidianità di un jeans ed una maglietta, restano invisibili. La drag ha la capacità di scoprire, con la sincerità del trucco, una strada che si trova a metà tra ciò che appare e ciò che è. Ciò che sembra illusione è quanto di più reale esista, perché risponde ad un’esigenza che viene dal desiderio ed il desiderio non conosce catene. La drag riesce a mostrare come sottrarsi dall’egemonia del maschile componendo un discorso pienamente queer.

Alle drag va perciò attribuito il merito di mostrare la vulnerabilità del maschile e di smontarlo, di farlo con una leggerezza inclusiva, con un taglio che riesce a concentrare in un’ombra di cipria mondi tra loro apparentemente inconciliabili. Penso al glamour divino, sensuale, esondante, alla bellezza, di Stephanie Glitter, alla capacità di evocare suggestioni urbane e allo stesso tempo da boudoir, da cabaret, da Salon Kitty, de La Persia, alla forza violenta dei riferimenti BDSM, da femme fatale di Crepax, di Sissy Galore, per arrivare a Lina Galore, che racconta tutto l’immaginario cui riferisce la vita e la storia di Giovanni, dalla pop culture anni ’90, alle pin-up, alla gloria di corpi liberi, penso a Jamie Lee Curtis, a Barbara Bouchet, al viso rotondo di una madre campana dai capelli neri, fasciata da una vestina di lino blu a pois bianchi.

“Una sera io e Jury stavamo tornando a casa in drag da un compleanno a tema Britney Spears, eravamo vestite rispettivamente da hostess di Toxic e segretaria di Womanizer. Erano le sei del mattino, non avevamo tolto i tacchi e stavamo morendo di dolore ai piedi. Decidiamo di fare questa corsa nella strada di casa, facendo un rumore con ‘sti tacchi che sembrava stesse passando la banda! Arriviamo davanti al portone e troviamo il portiere sveglio che stava portando fuori la spazzatura. Io ero con la parrucca, ancora completamente truccato, mentre Jury la parrucca se l’era tolta, così io ho avuto modo di passare velocemente davanti al portiere assonnato, senza dargli modo di rendersi troppo conto di chi fossi, invece Jury si è fermato e, per darsi un tono, con le calze rotte e la parrucca in mano, ha guardato il portiere e gli ha detto tutto serio ‘ciao Stefano!’ e ha imboccato il portone di casa!”.

Forse questo racconta un po’ il drag: una nottata felice fermata in un ricordo.

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