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Pentangle, una stella che non smette di brillare

By aprile 2, 2020 No Comments

Dicono le cronache che un cavaliere scozzese di belle speranze e talentuoso con la chitarra, sir Herbert Jansch, decise di andare a Londra in cerca di fama e fortuna. Ivi incontrò un suo coetaneo, John Renbourn, di pari bravura con lo strumento e di gusti affini. I due diventarono amici e ben presto la fama della loro abilità si sparse pere tutti i locali e taverne della sonnolenta Londra della prima metà degli anni sessanta. Non era il rock, non era il beat, la musica delle loro chitarre acustiche dalle corde di metallo: il loro repertorio spaziava dalle dolci gavotte rinascimentali, attraversava il jazz, fino ad arrivare al blues del profondo sud degli Stati Uniti.

Entrambi avevano avuto come maestro Davy Graham, forse il più rivoluzionario chitarrista inglese di tutti i tempi, più di God Clapton o di Lucifer Page. Graham fu il primo a contaminare la musica tradizionale inglese con elementi provenienti dall’estremo oriente e si inventò una nuova accordatura aperta per chitarra in modo da poter spaziare tra i vari generi.

Fu questione di tempo e il duo si trovò a incidere un disco insieme, dopo avere già provato l’ebbrezza di un esordio individuale, con la casa discografica Transatlantic, che in quegli anni cercava di scovare i migliori talenti della nascente scena del nuovo folk inglese. Scena che, oltre il già citato Graham, annoverava la divina Shirley Collins, dalla voce inarrivabile, la coppia Robin Williamson e Mike Heron che ben presto avrebbero formato The Incredible String Band, alfieri della svolta psych del genere, la talentuosa e solitaria Anne Briggs, amica di Jansch se non qualcosa in più, un giovane John Martyn, e un altro chitarrista di grandi prospettive, Richard Thompson che con il suo gruppo Fairport Convention – dove sarebbe approdata una tracagnotta ma simpaticissima cantante dalla voce d’angelo, Sandy Denny – faceva già parlare di sé.

u proprio durante l’incisione del suo secondo disco in proprio, che John Renbourn si trovò a collaborare con una giovane cantante dall’aria sofisticata e dal viso cavallino, Jacqui McShee, che fino a quel momento si era divisa tra il palcoscenico e la gestione di un pub. Nacque in quei giorni l’idea di un gruppo, un gruppo che avrebbe dovuto chiamarsi Pentangle, una stella a cinque punte destinata a brillare a lungo. Ma servivano altri due elementi.

Ed ecco che si fecero avanti Danny Thompson e Terry Cox, contrabbassista e batterista che fino a poco tempo prima avevano orbitato nel giro di Alexis Corner, il pioniere del blues britannico.

I giochi erano fatti e l’avventura poteva cominciare.

A giugno del 1968 esce il primo album, Pentangle.

Fin dal primo brano, lo standard “Let No Man Steal Your Thyme”, si comprendono subito quali siano le potenzialità della band. Non è solo il gioco di squadra delle due chitarre a sorprendere, ma i due ultimi gli arrivati, che portano il loro background jazzistico, fatto di tempi dispari e dinamici al servizio della folk song.

Al contrario degli amici/rivali dei Fairport Convention che pur nella loro ricerca filologica, strizzano l’occhiolino a nomi come The Band o a Bob Dylan per quanto riguarda i testi, i Pentangle attualizzano il loro repertorio con i ritmi provenienti dal jazz o dal blues. Infatti, è la batteria di Cox o il basso di Thompson, ben presto considerato come uno dei più capaci bassisti inglesi, che conducono le danze. E su questo dinamico tappeto ritmico Jansch e Renbourn vanno a nozze, duellando con numeri di alta scuola, sfruttando gli spazi che vengono concessi per inserire i propri assoli oppure relegandosi a un pregiato accompagnamento per la voce della McShee.

Forse solo The Allman Brothers Band con Duane Allmann e Dick Betts o i King Crimson degli anni Ottanta con la coppia Robert Fripp/ Adrian Belew hanno avuto due chitarristi capaci di giostrare tra ritmica e solista senza soluzione di continuità, scambiandosi i ruoli con tale naturalezza. A Jacqui McShee resta il compito di prodursi in melodie capaci di incantare i marinai di Ulisse oppure di armonizzare con la voce di Bert Jansch, aspra come una presa di tabacco da masticare.
Esempio chiave, a tale proposito, è la ripresa di un altro brano tradizionale, “Bruton Town”, dove le due voci così diverse e stridenti, si completano e si sostengono a vicenda.

I buoni riscontri non si fanno attendere e così, complice anche una serrata attività live, a novembre dello stesso anno arriva il secondo lavoro, Sweet Child, addirittura un doppio con un disco dal vivo e uno registrato in studio. Ed è proprio dalle facciate dal vivo che emerge ancora di più l’importanza della sezione ritmica. Danny Thompson si produce in una furente versione di “Haitian Fight Song” di Charles Mingus, suo idolo. I due amici, invece si concedono una ripresa compassata e venata di blues di un altro classico di Mingus, “Goodbye Pork Pie Hat”, così, tanto per far capire quali sono i loro riferimenti.
Si apprezzano anche i brani originali del gruppo, specialmente quelli composti da Bert Jansch che mantengono una naturale patina old fashion. Infatti, sul disco di studio oltre la title track, non si può non segnalare la trascinante “I’ve Got A Feeling”, che diventerà una dei punti di forza delle esibizioni dal vivo.

Bisogna però attendere Basket of Light, nel 1969, per raggiungere il successo.

L’affilata “Light Flight”, a firma dei cinque, diventa la sigla di un programma di successo della BBC, mentre le altre canzoni incluse come “Train Song” o “Sally Go Round The Roses” – nel repertorio di altri interpreti, tra i quali anche Tim Buckley – splendono di luce propria.

Le chitarre, l’acustica di Jansch e l’elettrica di Reinbourn, con la quale ogni tanto si cimenta in assoli misurati e degni di nota, si incrociano come lame di spade oppure creano eleganti tessiture come fossero esperte ricamatrici fiamminghe.
E su “House Carpenter”, oltre la consueta voce da Fata del Nord della McShee, è introdotto il sitar – suonato da Renbourn che è lo sperimentatore della band – per insaporire con un pizzico di curry il tradizionale porridge inglese. D’altra parte, l’India da cartolina, grazie ai Beatles, Donovan, Rolling Stones, è diventata ormai una moda, come dimostrano gli album dei Quintessence che arricchiscono di Tanpura e Swarmandala la loro musica profondamente influenzata dalla mistica del periodo.

E siamo al 1970, l’anno di Cruel Sister, per me il loro album migliore.

Si potrebbe considerare come una moneta a due facce: da una parte il compendio di tutto quello che la band ha fatto fino a quel momento, dall’altra la ricerca di una nuova via, uno spargere semi nell’aria che purtroppo però non porteranno un buon raccolto. E così ci troviamo di fronte alla gelida bellezza di “Lord Franklin” o della stessa “Cruel Sister”, un’algida murder ballad che i ricami di chitarra e il solito eccellente lavoro di Cox e Thompson, con la melodia incantatrice di Jaqui McShee, rendono un ostacolo duro da superare per tutti coloro che un domani cercheranno di approcciarsi alla stessa canzone.
Ma è il brano che prende tutta la seconda facciata, “Jack Orion”, a stupire.

All’interno della struttura circolare tipica delle ballate medievali, a ogni nuovo giro le variazioni strumentali apportate dalla maestria del finger picking di Bert Jansch alla chitarra acustica, gli intrecci vocali calibrati della McShee con lo stesso Jansch, fino ad arrivare all’esplosione acida e liberatoria dell’assolo di Renbourn, mai così ispirato alla chitarra elettrica, permettono ai Pentangle di trasformare il pezzo in un raga psichedelico più vicino alle atmosfere dei Grateful Dead in gita nella campagne del regno di Northumbria che al mito della Fairy Queen.

Purtroppo, però l’album non incontrò i gusti del pubblico e della critica. Alcuni lo giudicarono un passo falso, salvo poi rivalutarlo col tempo. Ma ormai era troppo tardi.

Fu così che l’anno seguente, venne pubblicato Reflection, forse il loro disco minore, anche se per i Pentangle l’aggettivo non ha molto senso, visto che in ogni caso ci troviamo su livelli che molte band non hanno mai raggiunto o che avrebbero venduto l’anima per raggiungere. Se, infatti, una critica può essere mossa, è che sia un disco più di testa che di cuore.

La band cerca di recuperare il terreno perduto e anche se le intenzioni sono genuine, quello che ne viene fuori non sempre convince. Non convince, specialmente, lo sguardo rivolto aldilà dell’oceano di alcuni brani, specie se l’oceano in questione è quello Pacifico.

Infatti, canzoni come “Will The Circle Be Unbroken?” o “When I Get Home” sanno molto di West Coast che di Inghilterra. Come se alla ricerca del consenso perduto, il gruppo avesse smarrito la strada. Ma anche in questa confusione, si può trovare una gemma splendente – “Reflection” appunto – che rassicura tutti.
Nel frattempo, prosegue l’attività solista di Bert Jansch e John Reinbourn, mentre Danny Thompson presta la propria abilità e il proprio contrabbasso ai primi due dischi di un giovane e timido cantautore, Nick Drake.

Solomon Seal del 1972 è la prova finale della band. Abbandonata la vecchia etichetta Transatlantic, passano all’americana Reprise, che già prima si era occupata della distribuzione die loro dischi per il mercato statunitense.

È un lavoro ineccepibile, forse privo del fuoco degli esordi, ma degno dei vecchi classici.

La voce e la presenza di Jacqui McShee ha raggiunto un livello di intensità e bellezza che ha eguali solo con quella di Sandy Denny, alla quale viene contrapposta in una rivalità a mio dire inesistente. “High Germany”, “People On The Highway”, “Willy O’ Winsbury”, “No Love Is Sorrow” sono la degna conclusione di una magnifica avventura.

I tempi sono cambiati, l’era del folk sta vivendo un lento tramonto, e mentre i gusti cambiano, i cinque decidono di separarsi per non cadere nella trappola di ripetersi percorrendo sempre gli stessi sentieri.
È un addio, ma anche allo stesso tempo un arrivederci, in quanto, gli anni a venire, in modo o in un altro, li vedranno collaborare o riunirsi per progetti estemporanei.

Terry Cox finirà per andare a suonare con Charles Aznavour mentre Thompson diventerà l’alter ego dei migliori lavori di John Martyn, come Solid Air o Bless the Weather, fino ad arrivare ai giorni nostri, passando da Secrets Of The Beehive di David Sylvian a dischi in coppia con l’omonimo non gemello Richard Thompson. Di lui mi piace ricordare anche il progetto Dizrhythmia, tra il prog, la fusion e la musica indiana, in compagnia dei due futuri King Crimson Gavin Harrison e Jakko M. Jakszyk.

Jacqui McShee è invece quella che attualmente porta in giro il nome della vecchia ditta, ma ha collaborato in più riprese con i suoi vecchi sodali. È interessante notare come la sua influenza si ritrovi in cantanti come Beth Orton in Sugaring Season o Isobel Campbell dei Belle and Sebastian in Milkwhite Sheets, che pur provenendo da generi diversi, in un modo o nell’altro, a un certo punto della loro carriera, le abbiano reso omaggio. Bert Jansch ci ha lasciato nel 2011, dopo parecchi dischi da solo o in compagnia e dopo avere svezzato almeno due generazioni di chitarristi.

Alla fine dell’articolo trovate il concerto per i suoi sessant’anni dove con amici di vecchia data, come Ralph McTell o la stessa Jacqui McShee, divide il palco con gente che non ti aspetteresti mai di trovare lì, come Johnny Marr degli Smiths o Bernard Butler dei Suede.

John Renbourn è morto nel 2015, dopo essere stato in tour fino all’ultimo, portando in giro la sua musica, tra il rinascimento e le contaminazioni orientali. Chitarrista dalla tecnica ineccepibile, forse meno spontaneo dell’autodidatta Jansch, ha dimostrato come la musica non può avere steccati.

È morto come muoiono i giusti, durante il sonno, e lo merita tutto.
Anche se lui e il suo degno compare ci mancano tanto.

Mancano soprattutto a una folta schiera di chitarristi che ancora oggi studia, suda, si danna sulle intavolature per chitarra dei loro brani e che alla sera, prima di abbandonarsi al sonno, rivolge un ultimo sguardo alle loro foto, come si fa alle immagini sacre in chiesa, sperando l’indomani di svegliarsi finalmente capaci di replicare o migliorare le gesta dei loro eroi.

Ma di gente come Riley Walker ne nasce uno su un milione…

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